Bailamme

Il coraggio di guardare nell’Abisso

 Il coraggio  di guardare nell’Abisso  QUO-022
28 gennaio 2022

Questa mattina, su un muro della stazione ferroviaria, campeggiava una frase che mi ha dato a pensare. «Dio c’è solo scritto sui muri», recitava. Epitaffio tardivo di un dio morto e sepolto da un secolo e mezzo, o traccia di un «oltre-Dio» che può rivelarsi nell’umano?

Ho pensato che la mano autrice della frase di vernice spray potesse esser stata involontariamente profetica, come inconsapevole è sempre ogni profezia, potesse aver detto più di quanto pensava di dire. Mi è tornata alla mente una bella conferenza di Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. In essa il filosofo fa ricorso all’idea qabalistica dello tzimtzum, dell’autocontrazione di Dio. Secondo questo mito ebraico, per creare il mondo, Dio, che è infinito, deve fare spazio in sé. Ciò vuol dire letteralmente che dove c’è la creazione non c’è Dio, e più le cose sono dotate di autonomia, più Dio ha ceduto il proprio potere affinché esse siano tali, fino all’uomo e al suo libero arbitrio.

Questa concezione comporta due cose. La prima è che Dio, quando crea, soffre. Siamo abituati a pensare a Dio come al motore aristotelico impassibile, ma il Dio della Bibbia è un Dio che freme di timore e si commuove per le sue creature, e la teologia evangelica di Moltmann arriva a dire che il Dio creante è già crocifisso. La seconda conseguenza è che Dio si prende cura del mondo. Ma il suo prendersi cura non è da intendersi in senso magico, perché questo deresponsabilizzerebbe l’uomo.

Di fronte alla scomparsa di Dio ad Auschwitz, Jonas ritiene che in questa era cosmica Dio abbia totalmente ceduto la propria onnipotenza per permettere all’uomo di assumersi una grande, infinita responsabilità. «Dio è morto», dice Jonas con Nietzsche, e l’uomo deve diventare come Dio. Ma, a differenza del filosofo della Gaia scienza, Jonas afferma che l’uomo non deve diventare onnipotente: deve diventare buono. E nell’essere buono l’uomo potrebbe ritrovare, insieme alla propria umanità, anche un barlume di divinità, potrebbe, nell’assenza di Dio, scoprirne la presenza, come nella «voce di un tenue silenzio» (1Re, 19, 12). Altrove ho parlato di «in-assenza» di Dio, cioè della sua non-assenza nella sua assenza.

Questa mattina avrei voluto dire all’autore della scritta sul muro che certamente Dio non c’è, che è morto. Ma quello che è morto è un dio da supermercato, un dio prêt-à-porter, che fa le cose al posto nostro, che lava i pannolini sporchi di un superuomo bambino che si crede onnipotente. Avrei voluto dunque chiedere: «...E l’uomo c’è?». L’uomo c’è dietro l’indifferenza con la quale assistiamo alla distruzione del nostro pianeta, al dramma di milioni di esseri umani, o quella con la quale, banalmente, facciamo una scritta su un muro di periferia?

Forse l’uomo deve fare silenzio e lasciarsi interpellare dal silenzio, uscire dalla grotta delle proprie convinzioni, dalla grotta di ignoranza di sé e di Dio, e avere il coraggio — come l’oltre-uomo di Nietzsche — di guardare nell’Abisso. Allora forse, come a Elia (= il mio dio è Jhwh) sul baratro del monte Oreb, potrebbe aprirsi davanti a lui uno spazio sconfinato; l’uomo potrebbe sentirsi chiamare da Dio, e nello stesso tempo sentire echeggiare, nel proprio nome, quello di Dio: «Elia, che ci fai qui?».

di Giuseppe Stinca