La parrocchia di Roma che salvò quindici bimbe ebree

Fraternità durante l’orrore

 Fraternità durante l’orrore  QUO-021
27 gennaio 2022

Disegnavano le bambine ebree, disegnavano tutto il tempo in cui erano costrette a rifugiarsi in un cunicolo stretto e buio sotto il campanile di Santa Maria ai Monti per distrarsi dallo strepitio degli stivali dei soldati sui sampietrini, durante quell’ottobre nero del 1943. Disegnavano soprattutto volti: quelli delle mamme e dei papà per non far sì che il terrore o il tempo ne offuscassero il ricordo, quelli delle bambole perse nella fuga o della regina Esther con in mano una kallá, il pane dell’offerta. Scrivevano i loro nomi, Matilde, Clelia, Carla, Aida. Aida Sermoneta, la cui firma rimane ancora impressa sui muri: «Dimoro all’ombra di queste volte». Volte sulle quali sono visibili, seppur sbiaditi dall’umidità, pesci e frasi in ebraico, dediche a «Roma santa e popolare». Con l’attrito del carboncino sui muri, le piccole volevano forse coprire urla, spari, porte sbattute.

Erano quindici, la più piccola 4 anni. Si salvarono nascondendosi in uno spazio lungo sei metri nel punto più alto di questa chiesa cinquecentesca nel cuore dell’antica Suburra, a pochi passi dal Colosseo. Vi trascorrevano ore, giorni, muovendosi come ombre, aiutate dalle suore “cappellone” e dall’allora parroco don Guido Ciuffa. Scamparono così a rastrellamenti e morte certa.

Mescolate alle novizie nel vicino Convento delle neofite, alla prima avvisaglia di pericolo venivano condotte in parrocchia attraverso una porta comunicante. Porta che oggi è un muro di cemento nel salone del catechismo: «Ai bambini spiego sempre cos’è successo qui e soprattutto cosa non deve più succedere», dice don Francesco Pesce, da dodici anni parroco a Monti. Le bambine correvano poi in sagrestia verso un’altra porta, camuffata con arazzi e paramenti, che le conduceva a 30 metri da terra sopra l’abside. Novantacinque gradini di una scala a chiocciola buia e angosciante, eppure, in quei momenti, unica via per la salvezza. Le bambine la percorrevano su e giù, a turno, per recuperare il cibo procurato dalle suore o dagli abitanti del rione. La storia di Santa Maria ai Monti è infatti una storia di fraternità di un intero quartiere. «Qui abbiamo toccato l’altezza del dolore ma anche l’altezza dell’amore», dice don Francesco. «Tutto il rione si è dato da fare, non solo i cattolici ma anche i fratelli di altre religioni che mantennero il silenzio e proseguirono nell’opera di carità. Un anticipo della Fratelli tutti».

di Salvatore Cernuzio