La morte dell’anziano monaco buddista sodale di Thomas Merton

Thich Nhat Hanh «è mio fratello»

 Thich Nhat Hanh «è mio fratello»  QUO-019
25 gennaio 2022

All’età di 95 anni, il 22 gennaio scorso, alla mezzanotte, al tempio di Tùừ Hiêu a Huêế, in Vietnam, si è spento il monaco e maestro buddista zen Thich Nhat Hanh. Monaco, poeta, costruttore di pace, uomo di forte spiritualità e unanimemente riconosciuto come colui che ha dato un significato alla lotta pacifista e alla diffusione “dell’arte della consapevolezza” nella vita di preghiera e nella quotidianità dell’esistere. Nato in Vietnam nel 1926, divenuto monaco all’età di 16 anni, ha conosciuto l’esilio per parecchi anni. Ha vissuto in Francia, vicino a Bordeaux, per molti anni, e ha fondato il Plum Village, una comunità di monaci e laici che quotidianamente, durante le loro meditazioni, fanno della “pratica”, il punto nevralgico del vivere comunitariamente e in questa società dell’oggi.

Thich Nhat Hanh, pubblicò molto ma fu anche uomo di incontro e di dialogo. Alcuni incontri furono significativi. Tra questi quello con il monaco trappista Thomas Merton il 28 maggio 1966 al monastero del Getsemani nel Kentucky. L’incontro avvenne per volere di John Heidbrink (1926-2006), ministro presbiteriano attivista per i diritti civili e pacifista oltre a essere segretario per la relazione con le Chiese del Fellowship of Reconciliation, associazione ecumenica che si occupava di “educare alla pace”. Heidbrink, amico dei fratelli sacerdoti Daniel e Philip Berrigan, di Dorothy Day e Jim Forest, cercò di aiutare il monaco vietnamita da poco esiliato dal Vietnam per le sue posizioni contro la guerra. Merton, rimase colpito dalla figura di Thich Nhat Hanh a tal punto che, nell’agosto 1966, scrisse un saggio con il titolo che abbiamo voluto dare a questo articolo in ricordo. Nelle pagine del suo diario, lo descrive così: «Nhat Hanh è prima di tutto un vero monaco, molto calmo, gentile, modesto, umile, e si nota che il suo zen ha lavorato bene in lui. Molto colto della filosofia buddista e anche un buon poeta. Come Camus è un buddista esistenzialista. Ho letto un suo articolo un paio d’anni fa in “Frère du monde” ed ora sono deciso a scriverne uno su di lui». L’articolo di Merton venne pubblicato nell’agosto 1966 nella rivista «Jubilee». Merton fece un ampio elogio del monaco vietnamita. Ci tenne a precisare all’inizio del suo testo che «non è una presa di posizione politica». Il periodo e l’autore potevano farlo pensare. Niente di tutto questo. «È mio fratello molto più di altre persone che mi sono vicine per razza e nazionalità, perché lui e io vediamo le cose esattamente nello stesso modo… Siamo entrambi monaci, abbiamo vissuto la vita monastica più o meno lo stesso numero di anni. Siamo entrambi poeti, esistenzialisti. Ho molte più cose in comune con Nhat Hanh che non con tanti americani, e non esito a dirlo. È di vitale importanza che questi legami vengano ammessi. Sono i legami di una nuova fratellanza che comincia ad essere evidente in tutti e cinque i continenti e che attraverserà tutti i confini politici, religiosi e culturali per unire giovani uomini e donne di tutti i paesi in qualche cosa che sia più concreto di un ideale e più vivo di un programma. Questa unità dei giovani è l’unica speranza del mondo». Una frase quest’ultima che, oltre ad essere di una bellezza e di un respiro moderno, porta in sé l’anelito che spinse, probabilmente, il monaco vietnamita, ad approfondire la «via della preghiera in consapevolezza» che è conosciuta anche come mindfulness.

È evidente il legame tra i due: la contemplazione. Nessuno dei due sono stati fuori dal “loro tempo”, ma seppur immersi nel sociale non hanno mai perso di vista la “fiamma interiore” della vita spirituale. Acuti osservatori preoccupati di comprendere il significato dell’esistenza dell’uomo nel periodo storico in cui hanno vissuto. Entrambi, con il loro stile, hanno conquistato molti e ne sono diventati punti di riferimento, quasi suscitando invidia. Forse sì, forse no, ma la frase a conclusione dell’articolo che Merton dedicò a Thich, lascia trasparire quasi una profezia: «Se significo qualcosa per voi, lasciate che la metta così: fate per Nhat Hahn tutto ciò che fareste per me se fossi nella sua posizione. E in molti sensi vorrei esserci». Momenti della storia dove la testimonianza era veramente un tentativo della sequela. Momenti della storia dove l’appartenenza all’esperienza spirituale diventava significato di vita.

Siamo di fronte, a nostro modesto avviso, a quella iniziale architettura del dialogo interreligioso e intermonastico che caratterizzò la Chiesa cattolica postconciliare, perché l’esperienza spirituale e l’afflato che si legge nella loro seppur breve corrispondenza e conoscenza è di notevole spessore. Non possiamo dimenticare che, dopo aver conosciuto “il maestro”, Thomas Merton scrisse, il 27 giugno 1966, al Nobel Institute di Oslo in Norvegia per proporre Thich Nhat Hanh quale possibile ricevitore del Nobel per la pace e così, anche Martin Luther King, l’anno seguente, 1967, fece lo stesso. Non venne mai riconosciuto il Nobel al monaco vietnamita ma egli ci ha lasciato una grande testimonianza di vita e di relazioni con il mondo cristiano cattolico che va ben al di là del premio stesso. Ci sembra bello concludere, ricordandolo con un’immagine che potrebbe unire il suo ritorno a casa. L’immagine del momento spirituale che ci ha insegnato e che i maestri di spiritualità come Merton hanno sempre voluto sottolineare quando si inizia la preghiera, e cioè, la consapevolezza di essere presente al Presente nel presente.

di Mario Zaninelli