Il Verbo interroga l’uomo e lo invita al conseguimento dell’autentica libertà

La carità
dà un senso alla storia

 La carità  dà un senso  alla storia  QUO-017
22 gennaio 2022

Con la lettera apostolica Aperuit Illis, emanata il 30 settembre 2019, nella memoria liturgica di San Girolamo, Papa Francesco dedicava la terza Domenica del Tempo ordinario alla celebrazione della Parola di Dio. Indicava la finalità di tale ricorrenza annuale nella convenienza di riscoprire il valore fondativo e normativo della Parola di Dio per la vita di fede di ogni battezzato e di tutta la Chiesa. Tale scelta di Francesco ha da subito mostrato un duplice significato: anzitutto perché compiuta al termine del Giubileo straordinario della Misericordia, quasi a voler sottolineare la stretta relazione che intercorre tra l’esperienza del tenero perdono di Dio e l’ascolto fiducioso della sua Parola; ma anche per la valenza ecumenica e interreligiosa che assume nel rinsaldare i legami con gli ebrei e tra tutti i cristiani, ricordandoci che la Parola di Dio è eredità comune, perché munifico dono che scaturisce dall’iniziativa con cui Dio chiama a raccolta e raduna in unità il suo Popolo.

Già l’apostolo Paolo sottolineava come la Parola Dio sia centrale per la vita e per l’esperienza dei credenti, dichiarando che la fede proviene dall’ascolto (Rm 10, 17). La Parola di Dio è vitale perché generativa, ed è generativa perché performativa: è potenza che opera e luce che rivela.

Con le «le parole di Dio» (Gv 3, 34) Gesù compie i miracoli, i segni dell’approssimarsi del Regno di Dio, e rivela il mistero del Padre che lo ha inviato (Gv 12, 50), perché egli stesso in quanto Figlio è la parola sussistente, il Verbo di Dio. Parola creatrice per mezzo di cui tutto è stato creato e Parola illuminatrice che rischiara le tenebre del peccato, Gesù inaugura il tempo definitivo e drammatico della risposta dell’uomo: di fronte alla sua persona ciascuno è interpellato a prendere posizione nei confronti di Dio. Chi crede in lui è introdotto nella vita teologale dei figli di Dio, mentre chi lo rifiuta rimane nelle tenebre del mondo (Gv 3, 17).

La Parola di Dio interroga l’uomo e lo invita al conseguimento dell’autentica libertà, perché realizzando in lui quanto dice, avvia processi di trasformazione che gli dischiudono la verità di se stesso. Questa Parola ci attrae a sé, parla al nostro cuore, scuote la coscienza e muove al bene, scopre le nostre debolezze più umane, i limiti più abietti, le paure più grandi, ma anche i desideri più reconditi, il bisogno di salvezza e l’anelito di pienezza. In mezzo alle tante confuse voci e ai disordini cui ci spinge la società dei consumi e dello scarto, la Parola di Dio «svela pienamente l’uomo a se stesso» (Gaudium et Spes 22), mostrandogli la sua dignità di creatura amata e redenta, innalzata in Cristo alla somiglianza con Dio.

Il Concilio Vaticano ii ha esortato tutti i battezzati a leggere la Parola di Dio in modo da saper pregare a partire dalla Sacra Scrittura. Ha rilanciato la pratica della Lectio divina che consiste nell’interrogare il testo sacro per giungere a contemplare il volto vero del Padre e, parlando familiarmente con Gesù, interiorizzare l’essenza del messaggio evangelico: Dio è amore (1 Gv 4, 8.16). Infiammata dallo Spirito Santo, la pagina biblica rivela la presenza viva del Signore Risorto e conferisce senso agli enigmi dell’esistenza umana: il dolore, la morte, il peccato, la malattia, il grande mistero dell’iniquità che affligge i popoli della terra e fa gemere la creazione come una partoriente e minaccia di distruggere la casa comune. Al di fuori del Vangelo, lontano dalla sua luce, ciascuno di tali interrogativi finirebbe per opprimere ed annichilire l’uomo, precipitandolo nella disperazione e nel vuoto di sé. Invece, l’ascolto orante della Parola ci consente di camminare nella storia senza venir meno alla speranza che il Signore agisce in mezzo a noi, ci sostiene e ci nutre, si pone al nostro fianco, si fa compagno di strada. Ci incoraggia a farci strumenti della sua giustizia, della sua carità, della sua pace, non rinunciando a dare il nostro apporto nell’edificazione di un mondo più fraterno e giusto.

Allo stesso tempo, ci aiuta a recuperare alcuni atteggiamenti fondamentali per la vita discepolare, come l’ascolto, la vigilanza, la lungimiranza, l’adesione attenta alla realtà.

Essere desti e pronti all’accoglienza della Parola, ci dispone all’osservazione disincantata della quotidianità e apre i nostri occhi sulle forme di esclusione e povertà che coartano la crescita integrale degli uomini del nostro tempo, degli anawim del Signore. Educa il nostro sguardo a spingersi oltre il ripiegamento sui bisogni imperanti dell’Io e ci addestra a quel sano e necessario esercizio di realtà che ci permette di intercettare le necessità degli altri. Facendoci uscire dall’asfissia dell’individualismo, aiutandoci a percepire ciò che altrimenti rimarrebbe invisibile al nostro cieco egoismo, ci spalanca la potenzialità di bene che deriva per noi e per gli altri dall’imboccare la via della condivisione e della solidarietà.

La dedizione alla Parola è dunque vitale, perché difficilmente saremo in grado di accogliere e proteggere il prossimo se non fossimo capaci di farci grembo accogliente in cui il Verbo di Dio viene a prendere dimora. Hans Urs von Balthasar ha ripreso il parallelismo, caro a certi Padri della Chiesa, tra la Parola che si fa carne e la Parola che si fa Libro, al fine di mostrare come Dio si è fatto incontro al modo umano di percepire le cose, si è avvicinato sensibilmente all’uomo, è diventato per loro oggetto di esperienza. La “lettera” della Bibbia è carne del Verbo, cioè mediazione coestensiva della sua realtà di vero Dio e vero uomo. Questa duplice incorporazione del Logos, si estende ad una terza dimensione: la carità concreta. Ogni qualvolta ci prendiamo cura del prossimo, ci carichiamo del peso d’umano altrui, noi permettiamo all’amore di prendere carne, realizzando la profezia della Parola di Cristo: «Tutto ciò che avete fatto ad uno di questi piccoli lo avete fatto a me» (Mt 25, 40).

C’è una circolarità tra l’Incarnazione del Verbo, l’ascolto della Parola, la carità che si fa gesto fattivo, che accade e si mostra come reciproco riconoscimento:

1 nella Sacra Scrittura riconosciamo la Parola di Dio;

2 questa ci porta a riconoscere nel nostro prossimo il Cristo, Verbo fatto uomo;

3 l’amore che si è fatto carne, gesto, sguardo, parola, mano tesa, porta il nostro prossimo a riconoscere in noi il Cristo che ci ha inviati.

Sant’Ambrogio, definendo Cristo come l’amore incarnato di Dio, scriveva che «Caritas Dei Verbum est». Ogni atto di carità è una teofania storica dell’amore trascendente, è una cristofania dell’amore salvifico. Allo stesso tempo, l’amore di Dio è epifania dell’uomo perché, come dichiara Paolo, senza agàpe l’uomo è nulla (1 Cor 13, 2). Il cristiano è «colui che dimora nell’amore» (1 Gv 4, 16) perché senza l’amore la sua fede si riduce a gnosi, è astrazione che fugge l’impegno di essere lievito e fermento della terra, in fatto di essere «terra buona» (Mt 13, 8 e 23).

L’amore di Cristo continua a esprimersi attraverso la carità che i discepoli si manifestano tra loro e verso tutti, ri-conoscendoli come fratelli. Viceversa, il comandamento dell’amore che Gesù ha lasciato ai suoi (Gv 13, 34), se incarnato nella fraternità e vissuto come amore fraterno, è la testimonianza attraverso cui il mondo può riconoscere il Cristo come inviato del Padre (Gv 17, 21).

L’amore del prossimo è l’opera di Dio in noi, è ciò che testimonia l’efficacia della Parola assimilata come cibo e bevanda alla mensa dell’Eucaristia.

di Michael Czerny
Prefetto ad interim, Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale