Il futuro dei media

Fiducia, coscienza
e collettività

 Fiducia, coscienza e collettività  QUO-016
21 gennaio 2022

Anche se il termine “post-verità” è stato consacrato dal dizionario di Oxford solo nel 2016, “l’attrazione malata” per lo scandalo e il torbido sembra tormentarci fin dalla notte dei tempi. «O figli degli uomini, fino a quando si farà oltraggio alla mia gloria? Fino a quando amerete vanità e andrete dietro a menzogna?». La domanda del salmista è più attuale che mai. In questa lunga lotta, che nasce sia dagli individui sia dalla collettività, la novità degli ultimi quindici anni riguarda la trasformazione dello spazio mediatico, sotto l’effetto combinato dell’informazione continua e delle reti sociali.

È sempre stato facile mentire, ma mai come ora è stato così semplice diffondere e amplificare la menzogna: la tecnologia è efficace, l’economia è favorevole, il diritto è quasi impotente. Ne risulta una deregolamentazione fatale, una grande crisi della parola pubblica.

Al centro di questa tempesta, che cosa possono fare i media? Qual è il loro ruolo? Quali sono i loro doveri?

Prima di rispondere a queste domande, bisogna innanzitutto sottolineare che il giornalismo è stato colpito in pieno da una duplice rivoluzione: quella dell’accelerazione e quella della disintermediazione dell’informazione.

L’accelerazione è stata all’origine di un forte sovraccarico di lavoro per i professionisti dei media. L’impossibilità di vedere le cose a distanza e l’obbligo del commento continuo hanno incoraggiato la superficialità e generato stress o sfinimento tra i giornalisti. La disintermediazione, da parte sua, ha provocato una crisi di senso ampliata da un deterioramento dell’immagine del mestiere di giornalista nel grande pubblico, ma anche tra i redattori stessi. A che cosa servono i giornalisti in un’epoca in cui le reti sociali permettono a ognuno di esprimersi nello spazio pubblico senza intermediari, senza mediazione, senza… media? Dal momento che l’informazione circola in modo quasi automatico, in base agli algoritmi, questa professione non rischia di diventare superflua? Io faccio parte di quanti invece credono che il mondo non abbia mai avuto così tanto bisogno di giornalisti scrupolosi, onesti, metodici e, per quanto possibile, non centrati su sé stessi. Perché? E come si può favorire il loro lavoro?

Il giornalismo è un mestiere basato sulla fiducia e sulla coscienza ed è un’attività collettiva. Soffermiamoci un istante su ognuna di queste tre parole. Prima di tutto la fiducia. Non per nulla «La Croix» pubblica ogni anno, da più di trent’anni, un barometro della fiducia nei media. La fiducia è alla base di tutti i rapporti che legano i professionisti dell’informazione, a monte (con le loro fonti) e a valle (con i loro lettori, ascoltatori, ecc.). È una tautologia: i “media” si trovano in “mezzo”. Il loro ruolo è di contribuire alla circolazione di una parola di qualità tra persone che non si frequentano quotidianamente. Questo ruolo di “terzo” di fiducia è cruciale in una società democratica. E deve essere incoraggiato e favorito: nessuna comunità può reggere a lungo senza convenire un minimo su qualche realtà obiettiva.

Poi la coscienza. Nell’era dell’informazione continua, il compito prioritario del giornalismo è di porre l’immediato a distanza. Nel caos con cui ha a che fare quotidianamente, il giornalista cerca di discernere ciò che merita di essere portato all’attenzione del pubblico. Lo fa in modo imperfetto, poiché parla in un dato luogo momento, animato dalle sue convinzioni, appesantito dai suoi pregiudizi, e senza conoscere il finale della storia. Questo compito di gerarchizzare l’informazione è realizzato da esseri umani per esseri umani. Affidarlo ad algoritmi, senza intervento consapevole, produce drammatici errori di percezione. Ciò favorisce la diffusione di temi irritanti o scabrosi, la confusione tra fatti e opinioni, e rinchiude ogni individuo nella sua bolla informativa, accrescendo l’indifferenza rispetto ai più bisognosi. E tutto ciò ha conseguenze reali sulla vita sociale e politica.

Infine il collettivo: i giornalisti lavorano a stretto contatto con una redazione o al suo interno. Anche se un articolo è firmato da una sola persona, è sempre il frutto di uno scambio di visioni. La scelta dei temi e delle angolazioni è oggetto di dibattito nei comitati di redazione, i testi vengono riletti, modificati, corretti. Tutto il contrario di un post pubblicato in rete da un influencer che deve renderne conto solo a sé stesso, libero da qualsiasi vincolo deontologico.

Fiducia, coscienza, collettivo. Ecco perché, a mio avviso, il giornalismo resta indispensabile. Vediamo ora come queste tre parole sono in sintonia con la richiesta espressa da Papa Francesco il 16 ottobre scorso.

È un dato di fatto: i media fanno sistema, questo sistema s’inscrive in una logica indotta dalla tecnica e dall’economia. E questa logica, da alcuni anni, sembra orientata in una direzione che non favorisce né il discernimento della verità né l’attenzione verso i più poveri. Il Papa ci fa prendere coscienza del fatto la crisi mediatica è connessa alla crisi ecologica; tutto è collegato. Potremmo tra l’altro estendere la metafora: dobbiamo ricollegarci a un’ecologia del dibattito (cfr. Isabelle de Gaulmyn, «La Croix», 24 settembre 2021). Lo spazio pubblico nel quale ognuno si può esprimere può essere visto come un bene comune del quale bisogna prendersi cura, proprio come ci si prende cura del Creato. Questo paragone apre alcune piste per avanzare nell’interrogativo centrale che si pone ai professionisti dei media e più in generale a tutte le comunità: come favorire la circolazione di una parola di qualità? Una parola che unisca piuttosto che dividere.

Come per l’ambiente, anche qui è possibile agire a vari livelli. Ne menziono tre. Senza negare la responsabilità particolare dei media, constatiamo in primo luogo che oggi la qualità del dibattito pubblico riguarda tutti. È stato questo al centro dell’appello lanciato da «La Croix» lo scorso autunno e firmato da personalità francesi di primo piano, a pochi mesi dall’elezione presidenziale. Ogni individuo può e deve evitare di diffondere informazioni falsificate.

Ma i piccoli gesti non bastano. Bisogna agire a un secondo livello, quello delle imprese editoriali, che hanno una responsabilità fondamentale in questa lotta. Il metodo e la deontologia devono essere insegnati meglio agli aspiranti giornalisti e condivisi con il pubblico. La trasparenza sulle nostre pratiche è una risposta al complottismo. A tale proposito la “Journalism Trust Initiative”, lanciata dalla Ong francese “Reporters sans frontières”, merita di essere diffusa e sostenuta. Bisogna anche sottolineare il ruolo degli azionisti dei grandi media. Questi non possono considerare l’informazione un genere di consumo come gli altri. Qui, ancor più che in altri ambiti, il fine (il pubblico e il profitto) non può giustificare i mezzi (la priorità data allo scandalo). Il gruppo cattolico Bayard (editore di «La Croix») ama dire che è «responsabile di quanto a fondo il suo pubblico s’interroghi» e ha posto al centro della sua ragion d’essere la necessità di «creare legami fecondi». Si possono collocare a questo livello intermedio anche le personaggi pubblici il cui ruolo è essenziale per la qualità del dibattito. I politici, i responsabili istituzionali, gli artisti, per la loro notorietà, hanno una parola che pesa più delle altre. Sono essi stessi dei “media”, degli intermediari, e in tal senso credo che la richiesta espressa dal Papa si rivolga anche a loro.

Infine è necessario agire a livello degli stati e delle istituzioni internazionali. Finché le infrastrutture tecniche, economiche e giuridiche continueranno a favorire la diffusione della menzogna, gli sforzi dei singoli individui e delle imprese editoriali saranno destinati all’insuccesso. Senza regolamentazione, la lotta contro la disinformazione è persa in partenza. La missione di un media è proprio di “contribuire alla fraternità” e di decentrare i nostri sguardi, in particolare verso le zone d’indifferenza. Per questo è più urgente che mai condurre, a livello sia collettivo sia individuale, la lotta contro le potenze che soffocano la verità.

di Jérome Chapuis
Directeur de la rédaction - La Croix