Il magistero

 Il magistero  QUO-015
20 gennaio 2022

Domenica 16

Quella che
dà Gesù
non è gioia
annacquata

Il Vangelo della Liturgia odierna narra l’episodio delle nozze di Cana, dove Gesù trasforma l’acqua in vino per la gioia degli sposi.

L’evangelista Giovanni non parla di miracolo, cioè di un fatto potente e straordinario che genera meraviglia. Scrive che a Cana avviene un segno, che suscita la fede dei discepoli. Possiamo allora domandarci: che cos’è un “segno” secondo il Vangelo?

Un segno è un indizio che rivela l’amore di Dio, che non richiama cioè l’attenzione sulla potenza del gesto, ma sull’amore che lo ha provocato.

Insegna qualcosa dell’amore di Dio, che è sempre vicino, tenero e compassionevole.

Il primo segno avviene mentre due sposi sono in difficoltà nel giorno più importante della loro vita.

Nel bel mezzo della festa manca un elemento essenziale, il vino, e la gioia rischia di spegnersi tra le critiche e l’insoddisfazione degli invitati.

Figuriamoci come può andare avanti una festa di nozze solo con l’acqua! È terribile, una brutta figura faranno gli sposi!

Ad accorgersi del problema è la Madonna, che lo segnala con discrezione a Gesù.

E Lui interviene senza clamore, senza darlo a vedere.

Tutto si svolge nel riserbo, “dietro le quinte”: Gesù dice ai servi di riempire le anfore d’acqua, che diventa vino. Così agisce Dio, con vicinanza, con discrezione.

I discepoli di Gesù colgono questo: vedono che grazie a Lui la festa di nozze è diventata ancora più bella.

E vedono anche il modo di agire di Gesù, questo suo servire nel nascondimento — così è Gesù: ci aiuta, ci serve nel nascondimento, in quel momento —, tanto che i complimenti per il vino buono vanno poi allo sposo, nessuno se ne accorge, soltanto i servitori.

Così comincia a svilupparsi in loro il germe della fede, cioè credono che in Gesù è presente Dio, l’amore di Dio.

Il primo segno che Gesù compie non è una guarigione straordinaria o un prodigio nel tempio di Gerusalemme, ma un gesto che viene incontro a un bisogno semplice e concreto di gente comune, un gesto domestico, un miracolo, diciamo “in punta di piedi”, discreto, silenzioso.

Attenti
ai “segni”

Egli è pronto ad aiutarci, a risollevarci. E allora, se siamo attenti a questi “segni”, veniamo conquistati dal suo amore e diventiamo suoi discepoli.

Ma c’è un altro tratto distintivo del segno di Cana.

In genere il vino che si dava alla fine della festa era quello meno buono; anche oggi si fa così, la gente a quel punto non distingue bene se è un vino buono o un po’ annacquato.

Gesù, invece, fa in modo che la festa si concluda con il vino migliore.

Simbolicamente ci dice che Dio vuole per noi il meglio, ci vuole felici. Non si pone limiti e non ci chiede interessi.

Nel segno di Gesù non c’è spazio per secondi fini.

La gioia che Gesù lascia nel cuore è gioia piena e disinteressata. Non è annacquata!

Proviamo oggi a frugare tra i ricordi alla ricerca dei segni che il Signore ha compiuto nella mia vita.

Ognuno dica: nella mia vita, quali segni il Signore ha compiuto? Quali accenni della sua presenza?

Segni che ha fatto per mostrarci che ci ama; pensiamo a quel momento difficile in cui Dio mi ha fatto sperimentare il suo amore.

E chiediamoci: con quali segni, discreti e premurosi, mi ha fatto sentire la sua tenerezza?

Quando io ho sentito più vicino il Signore, quando ho sentito la sua tenerezza, la sua compassione?

Ognuno di noi nella sua storia ha di questi momenti. Andiamo a cercare quei segni, facciamo memoria.

Come ho scoperto la sua vicinanza? Come in me è rimasta nel cuore una grande gioia? Facciamo rivivere i momenti in cui abbiamo sperimentato la sua presenza e l’intercessione di Maria. Lei, la Madre, che come a Cana è sempre attenta, ci aiuti a fare tesoro dei segni di Dio nella nostra vita.

Come
pellegrini
in cammino verso l’unità
dei cristiani

Dal 18 al 25 gennaio si svolge la Settimana di Preghiera per l’unità dei cristiani, che quest’anno propone l’esperienza dei Magi, venuti dall’oriente a Betlemme per onorare il Re Messia.

Anche noi cristiani, nella diversità delle nostre confessioni e tradizioni, siamo pellegrini in cammino verso la piena unità, e ci avviciniamo alla meta quanto più teniamo lo sguardo fisso su Gesù, nostro unico Signore.

Durante la Settimana di Preghiera, offriamo anche le nostre fatiche e le nostre sofferenze per l’unità dei cristiani.

(Angelus in piazza San Pietro)

Lunedì 17

L’ecumenismo si fa con
la preghiera
la carità e
il lavoro
insieme

La vostra visita giunge alla vigilia della Settimana di Preghiera per l’unità dei cristiani. Il tema di quest’anno è tratto dal Vangelo di Matteo: «In oriente abbiamo visto apparire la sua stella e siamo venuti qui per onorarlo» (2, 2).

Si riferisce ai magi che, dopo un lungo viaggio, trovano Gesù e lo adorano.

I magi raggiungono la meta perché l’hanno cercata.

Ma la cercano perché il Signore per primo, con il segno della stella, si era messo in ricerca di loro.

Trovano perché cercano, e cercano perché sono stati cercati.

È bello intendere la vita così, come un cammino di ricerca, che non parte da noi, ma da Colui che per primo si è messo in cerca di noi e ci attira con la sua grazia.

La grazia
che attira

Tutto nasce dalla grazia di Dio che ci attira.

E la nostra risposta non può che essere simile a quella dei magi: un cammino fatto insieme.

Chi è stato toccato dalla grazia di Dio non può chiudersi e vivere di autoconservazione, è sempre in cammino, sempre proteso ad andare avanti.

Avanti insieme: il vostro peregrinare qui è un bell’esempio di questo.

La tradizione ecclesiale ha riconosciuto nei magi i rappresentanti di culture e popoli diversi: anche per noi, specialmente in questi tempi, la sfida è quella di prendere per mano il fratello, con la sua storia concreta, per procedere insieme.

Siamo guidati dalla luce gentile di Dio, che dissipa le tenebre della divisione e orienta il cammino verso l’unità.

Siamo in cammino da fratelli verso una comunione sempre più piena.

Aiutiamoci, nel nostro pellegrinaggio ecumenico, a progredire “sempre più verso Dio”, magis ac magis in Deum, come dice la Regola di san Benedetto.

Il mondo ha bisogno della sua luce e questa luce risplende solo nell’amore, nella comunione, nella fraternità.

Ci sono tappe del cammino che risultano più agevoli e nelle quali siamo chiamati a procedere rapidi e solerti.

Penso a tanti percorsi di carità che, mentre ci avvicinano al Signore, presente nei poveri e nei bisognosi, ci uniscono tra noi.

A volte, però, il cammino è più faticoso e, di fronte a traguardi che sembrano ancora lontani e difficili da raggiungere, può aumentare la stanchezza e affiorare la tentazione dello scoraggiamento.

In questo caso ricordiamoci che siamo in cammino non come possessori, ma come cercatori di Dio.

Umile pazienza

Perciò dobbiamo andare avanti con umile pazienza e sempre insieme, per sostenerci a vicenda, perché così desidera Cristo.

Aiutiamoci quando vediamo che l’altro è nel bisogno.

E nel pellegrinaggio talvolta è necessaria una sosta per riprendere le energie e focalizzare meglio la meta.

E noi, cercatori di Dio in cammino verso la comunione piena con Lui e tra di noi, abbiamo davanti due stazioni importanti.

Nel 2025 il 1.700° anniversario del Concilio di Nicea.

La confessione trinitaria e cristologica di questo Concilio, che riconosce Gesù “Dio vero da Dio vero”, “consostanziale con il Padre”, ci unisce con tutti i battezzati.

Disponiamoci con rinnovato entusiasmo a camminare insieme nella via di Cristo, nella via che è Cristo!

Perché di Lui, della sua novità, della sua gioia impareggiabile abbiamo bisogno.

Solo stretti a Lui percorreremo fino in fondo la strada della piena unità.

Ed è sempre Lui che, anche inconsapevolmente, cercano gli uomini di ogni tempo e dunque pure di oggi.

La seconda stazione: nel 2030 — ci saremo? non ci saremo? non lo so — i 500 anni della Confessione di Augusta.

Docili alla sua volontà

In un tempo in cui i cristiani stavano per intraprendere vie diverse, quella Confessione tentò di preservare l’unità.

Sappiamo che non riuscì a impedire la divisione, ma la ricorrenza potrà essere un’occasione feconda per confermarci e rafforzarci nel cammino di comunione, per diventare più docili alla volontà di Dio e meno alle logiche umane, più disposti ad anteporre alle mete terrene la rotta indicata dal Cielo.

Al popolo Sami

E riguardo a voi [si rivolge ai rappresentanti del popolo Sami], caro fratello, vorrei ringraziarti perché hai preso i quattro sogni che avevo con l’Amazzonia, anche tu li hai presi con gli aborigeni della tua terra.

Mi viene in mente che un pastore dev’essere concreto con la gente concreta, con il suo popolo concreto, ma che non deve smettere di sognare.

A un pastore che si stanca di sognare, manca qualche cosa.

E poi, un’altra cosa sul cammino ecumenico. Quando si farà l’unità? Si domanda, non è vero?

Un grande teologo ortodosso specialista in escatologia ha detto: “L’unità sarà nell’eschaton”. Ma importante è il cammino verso l’unità.

È molto buono che i teologi studino, discutano... Sono specialisti. Ma è anche buono che noi, popolo fedele di Dio, andiamo insieme nel cammino.

E facciamo l’unità con la preghiera, con le opere di carità, con il lavoro insieme.

il ripetersi del vostro pellegrinaggio qui — a me piace tanto — è un segno ecumenico bello e incoraggiante.

Andiamo avanti insieme nella ricerca di Dio, con audacia e concretezza. Teniamo lo sguardo fisso su Gesù e teniamoci stretti nella preghiera, gli uni per gli altri.

(A una delegazione ecumenica della Finlandia)

Mercoledì 19

Una giustizia senza
tenerezza
chiude
la finestra
della speranza

Oggi vorrei approfondire la figura di San Giuseppe come padre nella tenerezza. Nella Lettera Apostolica Patris corde (8 dicembre 2020) ho avuto modo di riflettere su questo aspetto della tenerezza, un aspetto della personalità di San Giuseppe.

Anche se i Vangeli non ci danno particolari su come egli abbia esercitato la sua paternità, però possiamo stare certi che il suo essere uomo “giusto” si sia tradotto anche nell’educazione data a Gesù.

Come il Signore fece con Israele, così egli «gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano». È bella questa definizione della Bibbia che fa vedere il rapporto di Dio con il popolo di Israele. E lo stesso rapporto pensiamo sia stato quello di Giuseppe con Gesù.

I Vangeli attestano che Gesù ha usato sempre la parola “padre” per parlare di Dio e del suo amore.

Molte parabole hanno come protagonista la figura di un padre. Tra le più famose c’è quella del Padre misericordioso.

In questa parabola si sottolinea, oltre all’esperienza del peccato e del perdono, anche il modo in cui il perdono giunge alla persona che ha sbagliato.

Il figlio si aspettava una punizione, una giustizia che al massimo gli avrebbe potuto dare il posto di uno dei servi, ma si ritrova avvolto dall’abbraccio del padre.

La tenerezza è qualcosa di più grande della logica del mondo. È un modo inaspettato di fare giustizia. Ecco perché non dobbiamo mai dimenticare che Dio non è spaventato dai nostri peccati: mettiamoci questo bene nella testa.

Dio non si spaventa dei nostri peccati, è più grande dei nostri peccati: è padre, è amore, è tenero.

Non è spaventato dai nostri peccati, dai nostri errori, dalle nostre cadute, ma è spaventato dalla chiusura del nostro cuore — questo sì, lo fa soffrire — è spaventato dalla nostra mancanza di fede nel suo amore.

C’è una grande tenerezza nell’esperienza dell’amore di Dio.

È bello pensare che il primo a trasmettere a Gesù questa realtà sia stato Giuseppe.

Le cose di Dio ci giungono sempre attraverso la mediazione di esperienze umane.

Tempo fa un gruppo di giovani che fanno teatro, un gruppo di giovani pop, “avanti”, sono stati colpiti da questa parabola del padre misericordioso e hanno deciso di fare un’opera di teatro pop con questo argomento, con questa storia.

E l’hanno fatta bene. E tutto l’argomento è, alla fine, che un amico ascolta il figlio che si era allontanato dal padre, che voleva tornare a casa ma aveva paura che il papà lo cacciasse e lo punisse.

E l’amico gli dice, in quell’opera pop: “Manda un messaggero e di’ che tu vuoi tornare a casa, e se il papà ti riceverà che metta un fazzoletto alla finestra, quella che tu vedrai appena prendi il cammino finale”.

Così è stato fatto. E l’opera, con canti e balli, continua fino al momento che il figlio entra nella strada finale e si vede la casa. E quando alza gli occhi, vede la casa piena di fazzolettini bianchi: piena. Non uno, ma tre-quattro per ogni finestra.

Fare i conti con il Signore

Così è la misericordia di Dio. Non si spaventa del nostro passato, delle nostre cose brutte: si spaventa soltanto della chiusura.

Tutti noi abbiamo conti da risolvere; ma fare i conti con Dio è una cosa bellissima, perché noi incominciamo a parlare e Lui ci abbraccia.

Allora possiamo domandarci se noi stessi abbiamo fatto esperienza di questa tenerezza, e se a nostra volta ne siamo diventati testimoni.

La tenerezza non è prima di tutto una questione emotiva o sentimentale: è l’esperienza di sentirsi amati e accolti proprio nella nostra povertà e nella nostra miseria, e quindi trasformati dall’amore di Dio.

Dio non fa affidamento solo sui nostri talenti, ma anche sulla nostra debolezza redenta.

Questo fa dire a san Paolo che c’è un progetto anche sulla sua fragilità.

Il Signore non ci toglie tutte le debolezze, ma ci aiuta a camminare con le debolezze, prendendoci per mano.

Prende per mano le nostre debolezze e si pone vicino a noi. E questo è tenerezza.

L’esperienza della tenerezza consiste nel vedere la potenza di Dio passare proprio attraverso ciò che ci rende più fragili; a patto però di convertirci dallo sguardo del Maligno che «ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità», mentre lo Spirito Santo «la porta alla luce con tenerezza».

«È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi».

Guardate come le infermiere, gli infermieri toccano le ferite degli ammalati: con tenerezza, per non ferirli di più.

E così il Signore tocca le nostre ferite, con la stessa tenerezza.

«Per questo è importante incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione», nella preghiera personale con Dio, «facendo un’esperienza di verità e tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità — lui è bugiardo, ma si “arrangia” a dirci la verità per portarci alla bugia — ma, se lo fa, è per condannarci».

Invece il Signore dice la verità e tende la mano per salvarci. «Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene».

Dio perdona sempre: mettetevelo nella testa e nel cuore.

Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. Ma lui perdona anche le cose più brutte.

Ci fa bene specchiarci nella paternità di Giuseppe che è uno specchio della paternità di Dio, e domandarci se permettiamo al Signore di amarci con la sua tenerezza, trasformando ognuno di noi in uomini e donne capaci di amare.

Senza questa “rivoluzione della tenerezza” rischiamo di rimanere imprigionati in una giustizia che non permette di rialzarsi facilmente e che confonde la redenzione con la punizione.

Voglio ricordare in modo particolare i nostri fratelli e le nostre sorelle che sono in carcere.

È giusto che chi ha sbagliato paghi per il proprio errore, ma è altrettanto giusto che chi ha sbagliato possa redimersi dal proprio errore.

Non possono esserci condanne senza finestre di speranza. Qualsiasi condanna ha sempre una finestra di speranza.

Pensiamo ai nostri fratelli e alle nostre sorelle carcerati, e pensiamo alla tenerezza di Dio per loro e preghiamo per loro, perché trovino in quella finestra di speranza una via di uscita verso una vita migliore.

E concludiamo con questa preghiera: San Giuseppe, padre nella tenerezza, / insegnaci ad accettare di essere amati proprio in ciò che in noi è più debole. / Fa’ che non mettiamo nessun impedimento / tra la nostra povertà e la grandezza dell’amore di Dio. / Suscita in noi il desiderio di accostarci al Sacramento della Riconciliazione, / per essere perdonati e anche resi capaci di amare con tenerezza / i nostri fratelli e le nostre sorelle nella loro povertà. / Sii vicino a coloro che hanno sbagliato e per questo ne pagano il prezzo; / aiutali a trovare, insieme alla giustizia, anche la tenerezza per poter ricominciare. / E insegna loro che il primo modo di ricominciare / è domandare sinceramente perdono, per sentire la carezza del Padre.

Soluzioni
positive
per i lavoratori

Saluto i lavoratori della Compagnia aerea AirItaly, e auspico che la loro situazione lavorativa possa trovare una positiva soluzione, nel rispetto dei diritti di tutti, specialmente delle famiglie.

(Udienza generale
nell’Aula Paolo vi )