Le risorse spirituali alla prova della pandemia

Salvezza, non solo salute

 Salvezza,  non solo salute    QUO-014
19 gennaio 2022

Pubblichiamo l’intervento del cardinale bibliotecario di Santa Romana Chiesa tenuto in occasione della XXXIII Giornata del dialogo ebraico-cristiano, celebrata lo scorso 17 gennaio. Un’occasione per riflettere sulle Sacre Scritture che le due tradizioni hanno in comune. 

Una domanda inevitabile che ci accompagna in questo tempo di prova aperto dalla pandemia è: «Come sopravvivere al male?». E con questa domanda non penso in primo luogo alla sopravvivenza fisica, anche se i numeri della mortalità associata al Covid-19 sono impressionanti (più di 5 milioni e mezzo di morti nel mondo, secondo i dati della Johns Hopkins University & Medicine) e ogni giorno, senza interruzione, si continua a morire per mano della pandemia. Penso soprattutto a quell’altra forma di sopravvivenza con cui ci confrontiamo quando, sotto l’impatto di una sofferenza imprevista, di un ostacolo che ci si para innanzi, o di una prova alla quale non eravamo preparati, la nostra abituale esperienza del mondo deve trovare un’altra configurazione. In momenti come questi, siamo chiamati ad attivare, o a riscoprire, le risorse spirituali e umane.

Perché parlare di risorse? L’etimologia latina del termine «risorsa» è collegata al verbo «resurgĕre», risorgere. Per noi cristiani questo è un nesso particolarmente significativo, dal momento che anche la parola «risurrezione» viene dal medesimo verbo. Dove c’è la morte, s’impone l’interrogativo sul risorgere. La morte è universale, lo sappiamo bene, e ci viene drammaticamente incontro quando meno ce l’aspettavamo. Non c’è esistenza al mondo che non la percepisca, in un momento o nell’altro del suo percorso, come un impegno ineludibile. Per questo, nei momenti di crisi, nei passaggi dilemmatici che ciclicamente la storia ci apparecchia, nell’esperienza del trauma e del lutto, negli scuotimenti sismici delle certezze che fino a quel momento sembravano regolare la morfologia della vita, siamo chiamati a entrare in contatto di nuovo, e forse con maggiore intensità, con le nostre risorse spirituali e umane. Sono queste, infatti, gli strumenti primari di soccorso, i punti di appoggio, le leve preziose per rendere operativa la speranza.

Ciò che ci guarisce, ciò che ci salva

È interessante constatare come venga dal campo della psichiatria e della psicoterapia contemporanea un endorsement che valorizza il ruolo di queste risorse. Si veda, per esempio, quello che dice lo psichiatra e psicanalista francese Boris Cyrulnik, che si porta sulle spalle il peso del martirio dei suoi genitori perpetrato dalla macchina di morte dei nazisti quando lui aveva appena sette anni. In un’intervista che ha concesso a una rivista spagnola, a pandemia già iniziata ( xl Semanal, 21-04-2020), egli ricordava due cose fondamentali: la prima è che i traumi fanno parte della vita dell’essere umano, e per far sì che questa aggressione non venga a bloccare la vittima per sempre è decisivo, tra gli altri aspetti, rinforzare le sue risorse interne, in particolare quelle spirituali.

La seconda cosa, che mi pare anche di maggiore attualità, è che dopo ogni catastrofe normalmente affiora una rivoluzione culturale. La vita si riorganizza per risorgere dopo il disastro: deve farsi strada un’altra maniera di vedere il mondo.

E la pandemia ci trasferisce effettivamente a un nuovo livello della storia. Non possiamo credere di poter ritornare al mondo di ieri e che la situazione si risolverà semplicemente con qualche ritocco al sistema. Come chiaramente dice papa Francesco nelle primissime pagine dell’enciclica Fratelli tutti, questo sarebbe «negare la realtà» (n. 7).

Non è piccolo compito quello che generazionalmente ci spetta, di subire un mutamento d’epoca e di esserne allo stesso tempo protagonisti, con tutto ciò che questo significa.

Mi viene alla mente la coraggiosa riflessione sulla ricostruzione materiale e spirituale dell’Europa che faceva Simone Weil nei primi mesi del 1943, quando si cominciava a presentire la disfatta di Hitler. Era evidente per la filosofa che non sarebbe stata sufficiente una vittoria militare per un nuovo, effettivo inizio, ma che si imponeva un ripensamento globale su quanto era avvenuto. La sconfitta diventa vittoria soltanto se ci apre a un nuovo radicamento, a un profondo cambiamento di civiltà. Anche il nostro presente si vede più che mai convocato a un ripensamento. L’originale concomitanza tra le parole «salute» e «salvezza» ci suggerisce di allargare il nostro orizzonte di coscienza a ciò che sta realmente in gioco in questa ora. La pandemia la si gestisce su un fronte sanitario. Ma non in maniera esclusiva. Sarebbe un tragico inganno non vedere che il dibattito su ciò che ci guarisce si risolve solamente nell’apertura a ciò che ci salva.

In questo senso, l’approfondimento del cammino ecumenico rappresenta un’esigenza urgente del momento presente.

Riflettendo sul tema proposto, le risorse spirituali e umane delle religioni ebraica e cristiana che possono essere presentate come strumenti per affrontare questa prova che è la pandemia, vorrei concentrarmi, seppur brevemente, su tre riscoperte fondamentali che ci coinvolgono tutti.

1. La riscoperta di un Dio affidabile

Il primo punto si ricollega in qualche modo a ciò che Boris Cyrulnik pone alla base della resiliente capacità di reagire ai traumi e alle difficoltà: la «teoria dell’attaccamento», che dimostra quanto sia essenziale lo schema dell’attaccamento che il bambino sviluppa (o purtroppo non sviluppa) in rapporto con le figure parentali. Genitori amorevoli, premurosi e presenti generano figli pieni di fiducia. Questa stessa «teoria dell’attaccamento» (formulata per primo da John Bowlby) viene applicata da Cyrulnik alla relazione con Dio. Ora, anche se dobbiamo stare ben attenti a non ridurre Dio alla figura di uno psicoterapeuta e la religione a una forma di benessere emozionale, questo ci rammenta una risorsa teologica fondamentale delle religioni bibliche: l’affidabilità di Dio. Il Dio biblico è un Padre (e, narrativamente, anche una Madre) su cui noi possiamo contare. «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai», leggiamo in Isaia 49,15. E, allo stesso modo: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso» (Isaia 49,8), citazione che Paolo riprende nella sua Seconda Lettera ai Corinzi (6,2).

Nei momenti di prova come quello attuale, può insinuarsi nel cuore umano il dubbio originale, quello che il serpente suggerì nel giardino dell’Eden: che il mistero di Dio sia ambivalente e nasconda una minaccia. Ora, la tradizione biblica, tanto ebraica come cristiana, smonta questa presunta ambivalenza e rivela un Dio credibilmente intento alla salvezza dell’essere umano.

Nella Statio Orbis presieduta da papa Francesco quel 27 marzo 2020, il testo proclamato era tratto dal Vangelo di Marco (4,35—41): Gesù che dorme nella barca mentre i discepoli si vedono naufragare. «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38) è la domanda che gli fanno. La risposta di Gesù viene ad attestare l’affidabilità di Dio. Come dice il Papa, «non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te», perché «con Dio la vita non muore mai». Nel mezzo della tempesta, Gesù esorta non al timore ma alla fede. Gesù contrasta il trionfo della paura in noi: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). Allo stesso tempo, però, ci fa capire che l’inizio della fede non è l’autosufficienza, ma il «saperci bisognosi di salvezza».

La prova della pandemia è – lo stiamo sperimentando in questi tempi — una prova anche per le religioni. E osservando tanti indicatori ci rendiamo conto che non è una prova piccola: diminuzione massiccia dei fedeli, rarefazione e impoverimento della vita comunitaria, accentuazione dell’individualismo, disseminazione della paura invece che rafforzamento della fede. Anche le religioni devono attivare le loro risorse più preziose: l’affidabilità di Dio, che deve essere la chiave di lettura di questa ora, cogliendo allo stesso tempo la grande sfida rappresentata da questa tempesta per situarci in una vera dinamica di conversione.

2. La riscoperta del «noi»

La parola pandemia definisce lo scoppio di una malattia su ampia scala. Ma il suo senso letterale viene dalla giunzione di pan con demos, cioè qualcosa che spetta a «tutto il popolo». Questo vuol dire che nella pandemia non sono in causa soltanto il destino individuale, il naufragio, o la messa in sicurezza, di un solo Paese o di un solo continente, ma la globalità del mondo e il destino della specie umana. Dalla prova della pandemia usciremo vincitori unicamente se riscopriremo con nuova audacia l’orizzonte del «noi». Ma a tale scopo dobbiamo ripristinare il patto comunitario ed estenderlo universalmente. In questo le risorse spirituali possono agevolare un cambio di ottica, affermando, come conseguenza del Dio unico e creatore di tutti, quello che la Scrittura dice in tanti modi e che Gesù conferma: «Voi siete tutti fratelli» (Matteo 23,8).

In un mondo troppo frammentato in logiche di blocchi e interessi di parte, questa crisi ci aiuta a vedere che non ci salviamo da soli. La domanda biblica «dov’è tuo fratello?» (Genesi 4,9) ci chiede di sostituire l’architettura del mondo e di progettare un ordine internazionale eticamente qualificato come esercizio di responsabilità, invece di essere la normalizzazione dell’egoismo e dell’indifferenza. Parlando ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (10/1/22), papa Francesco ha detto, di recente: «Occorre constatare con dolore che per vaste aree del mondo l’accesso universale all’assistenza sanitaria rimane ancora un miraggio». E ha reiterato il suo «appello affinché i governi e gli enti privati interessati mostrino senso di responsabilità, elaborando una risposta coordinata (...) mediante nuovi modelli di solidarietà e strumenti atti a rafforzare le capacità dei Paesi più bisognosi». La progressiva e complessa scoperta del «noi» è la storia del passato dell’umanità, spiegava il sociologo Zygmunt Bauman, ma garantiva anche che avremo un futuro solo se avremo l’intelligenza e la bontà di espandere le frontiere dal noi all’umanità intera, sostituendo la cultura dell’ostilità con una cultura dell’interdipendenza e della fraternità che abbia al centro il bene comune.

3. La riscoperta dell’io

Uno degli impatti traumatici della pandemia è l’esperienza in prima persona della vulnerabilità. Da un momento all’altro ci siamo scoperti più fragili di quanto non pensassimo, in un mondo che sottopone a revisione critica quel progresso automatico che avevamo dato per assodato. Ci accorgiamo che dunque il nostro rapporto con il progresso era idolatrico, con le sue certezze sul futuro, con le sicurezze che la scienza ci può offrire, con la durata di una felicità che si estrae dal benessere. Ci siamo ritrovati sprovvisti, disorientati, analfabeti della vita, sentendo la mancanza di un’educazione che la società contemporanea non ci dà: l’educazione a vivere costruttivamente la propria vulnerabilità. La pressione dei modelli dominanti cammina anzi in tutt’altra direzione. Ma qui, in questa turbolenza del presente, si apre un’opportunità: la riscoperta più reale, umile e speranzosa di quello che siamo. E dobbiamo dire che in questo i testi biblici costituiscono una risorsa preziosa su cui contare. Ci insegnano che la vulnerabilità non è un tabù, una sorta di interdetto sociale, ma è la nostra comune condizione che, ad ascoltarla in profondità, ha tanto da insegnarci. «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Matteo 5,3). Infatti, possiamo dire, «benedetta vulnerabilità!» che ci rende consapevoli della nostra povertà.

Uno degli elementi molto forti nei Vangeli cristiani è certamente l’empowerment delle vite vulnerabili. Una gran parte degli incontri di Gesù di Nazaret vede protagonisti donne e uomini feriti dall’esperienza della sofferenza, immersi nella fragilità, lacerati dalla malattia e da varie forme di male. Va sottolineato che in nessuna circostanza la vulnerabilità rappresentò un ostacolo alla ricerca della misericordia e salvezza di Dio. Si direbbe che, al contrario, ne fu chiaramente un motore. È questa la comprensione che può essere alla base di una sapienza capace di farci guardare in un altro modo al presente. L’io cosciente della sua vulnerabilità non è necessariamente bloccato nella ricerca spirituale. Anzi. La fragilità ci fa diventare assetati e ricercatori come, per esempio, ci ricordano tante preghiere del Libro dei Salmi.

Una delle grandi mistiche contemporanee, e che ha così bene attuato il dialogo tra ebraismo e cristianesimo, è Etty Hillesum. Scrisse che è nei momenti in cui la nostra anima è sopraffatta, in cui sembra che stia per soccombere, che dobbiamo imparare a guardare i gigli del campo. La vulnerabilità che il tempo impone: non è questo il problema. Il nodo del problema, ricordava sempre Etty Hillesum, è mantenere viva e feconda la porzione di divino che ci abita.

All’inizio pensavamo che la pandemia sarebbe stata un tempo breve, adesso capiamo che non sarà così. E quell’aspettativa che nella prima fase ci ha tenuto coesi la vediamo ora tramutata in stanchezza, disillusione e fatica interiore. Irrompono da molte direzioni i segnali di una valanga che si sta abbattendo nel campo della salute mentale. È necessaria una riflessione antropologica e sapienziale per aiutare ciascuno a come porsi in questi tempi concreti. L’io ha bisogno di essere riscoperto.

E comunque allo stesso tempo — dobbiamo ricordarci gli uni agli altri — sono già state attivate tante risorse spirituali e umane. Ci sono testimonianze di tante storie straordinarie d’amore e di cura. Esattamente in questo periodo di tempo sono state aperte tante finestre sul futuro. Nell’intervista a Boris Cyrulnik che ho citato poco fa, egli dice, tra le altre cose, che forse ciò che adesso noi vediamo è solo confusione e sconcerto, ma che poi la famiglia e le coppie si ritroveranno rafforzate: perché, a partire da questa dura esperienza, sarà meglio percepita la ricchezza di umanità che esse rappresentano. Questo è indubbiamente un segno positivo che nasce della incertezza provata in questi anni di pandemia. Tutto risiede, in effetti, nella disponibilità, partendo delle proprie risorse spirituali e umane, a trasformare, adattare, ricominciare e riscoprire.

Mi piacerebbe concludere parlando di un’immagine, visto che un’immagine vale più di mille parole. La stampa internazionale e i social network hanno dato evidenza, negli ultimi giorni, a una fotografia scattata da Erik Jennings, un medico che da anni lavora in Amazzonia. La foto testimonia il viaggio nel Pará, in Brasile, di Tawy Zoé, un indigeno di 24 anni che carica sulla schiena l’anziano padre per portarlo a vaccinarsi. Tra andata e ritorno il viaggio è durato dodici ore. Il padre è come seduto su uno scampolo di stoffa, che il figlio stringe con le mani e tiene ancorato alla propria fronte. Possiamo immaginare quale sia stato, per entrambi, lo sforzo. Ma il loro sguardo possiede la serenità di chi sa di fare la cosa più giusta. Ed essi contribuiscono in quel modo a dare una risposta inequivocabile alla domanda che tante volte ritorna durante questa epidemia: «Come sopravvivere al male?».

di José Tolentino de Mendonça