L’io, il corpo e l’altro

Atto di fiducia e carità

 Atto di fiducia e carità   QUO-010
14 gennaio 2022

«Questo scritto non è un’apologia dell’obbedienza e nemmeno della disobbedienza. Questo scritto è un’apologia del tormento che accompagna e segue ogni discernimento.

Questo scritto inoltre, ha un pregiudizio psicodinamico: la matrice di obbedienze e disobbedienze (sono ben fatte quelle che fanno spazio al dolore e che sanno pagare il prezzo) è tutta nel rapporto originario con il proprio corpo. Lo vedremo.

Questo scritto ha un secondo pregiudizio: solo chi sa obbedire sa disobbedire.

Cosa vuol dire obbedire.

Obbedisco! Prima di tutto l’etimo: ob audere. Ascoltare chi hai di fronte rafforzato dal prefisso ob.

Fra le tante cose che occorre saper fare bene nella vita c’è l’obbedire e disobbedire, ma obbedire e disobbedire sono prodezze non facili; un buon genitore sa che deve, fra le altre cose, insegnare a obbedire e disobbedire; anche questo è il suo doloroso progetto.

Per una buona pratica della obbedienza occorre spazio, coraggio e discernimento. Soprattutto discernimento. La peggiore dannazione dell’umano è obbedire senza accorgersene.

Obbedire è come un sapore che, in quanto tale, non si lascia descrivere con facilità perché è pratica dai confini incerti. Se l’obbediente è troppo in accordo con il comando allora la parola non è obbedienza ma concordia: i cuori, ci dice l’etimo, risuonano all’unisono. Obbedire si carica di senso solo nella misura in cui mette in tensione un conflitto, un rischio, grande o piccolo che sia, altrimenti la parola obbedienza può lasciare il posto ad altri verbi più pertinenti. Obbedire e concordia sono fra loro incoerenti: non si prevedono reciprocamente.

Se l’obbedienza è estorta allora la parola è abuso, schiavitù, tirannia, ricatto. L’obbedienza galleggia come un ago fra due calamite equipotenti ed equidistanti: di qua la coscienza dell’obbediente e di la quella dell’obbedito. Basta un nulla che l’ago ruzzola di là ed è sottomissione, obbedienza cieca; o di qua ed è rivolta. Quindi l’obbedienza, come tutte le cose importanti della vita, si presenta come il transito per la celebre porta stretta, vive scomoda e tormentata su una mutevole una scala di grigi.

Obbedire è dire “sì”; un atto fiduciario e rischioso quindi a suo modo eroico e, se non lo è, allora la parola non è obbedire. L’obbedienza si presenta sempre equivoca pronta a promettere il peggio delle relazioni umane perché la sua residenza è a un passo da sopraffazione e quiescenza e la storia è troppo ricca di queste pieghe per non rimanere vigili e allerti.

Nelle istituzioni religiose e militari obbedienza è statuto, parola d’ordine. È il primo nodo del cingolo del saio francescano. Per questo, e solo per questo motivo, è più facile trovarvi la sua catastrofe ma sbaglierebbe chi credesse che l’ubbidienza possa ammalorarsi soli li. Quand’anche fosse possibile smontare e distruggere caserme e conventi, il problema della obbedienza rinascerebbe dalle loro ceneri. Davvero qualcuno è così ingenuo da non accorgersi che partiti politici, università, scuola, famiglia, organizzazioni sindacali, ordini professionali, redazioni di giornali, aziende, strutture sanitarie non tengano attive gerarchie e pratiche di obbedienza, salvo tenerle debitamente nascoste camuffando questa inconfessabile parola con altre più di moda e meno deamicisiane?

L’obbedienza è un valore, una pratica, un luogo politico e affettivo dove chiunque può entrare e, spesso legittimamente, appiccare il fuoco perché vede la bestemmia della libertà estorta o svenduta per un briciolo di sicurezza ma come l’araba fenice il volto stolido di questa istituzione, l’obbedienza, torna ad interrogare impietoso. L’obbedienza a ben vedere è un luogo affettivo ed istituzionale che non è eludibile se non a costo della vita.

La storia gronda di obbedienze estorte e la distorsione prospettica dice che le grandi evoluzioni della umanità sono il frutto di gloriose ed epiche disobbedienze. Forse uno degli scopi impliciti di questa riflessione sull’obbedienza è dimostrare che la storia è stata scritta dalle macro-disobbedienze (che sono diventate tali per la dannazione umana a dotarsi di racconti mitici) tanto quanto da micro-obbedienze della vita di tutti i giorni, troppo fiacche per generare mitologie e capitoli nei libri di storia. Obbedienza e disobbedienza sono due contrari sempre coesistenti, ogni disobbedienza sempre obbedisce a qualcosa. La vita di Cristo e soprattutto la sua morte, ne sono la prova più leggendaria.

Per quanto la psicoanalisi e la storia della filosofia degli ultimi secoli abbiano descritto una fatale sistematica demolizione — evaporazione, si usa dire oggi — degli archetipi paterni, della legge, del vero, dell’innegabile, obbedire ai quali sembrava ed era un gioco da ragazzi, nonostante questo, la pratica dell’obbedienza resiste testarda e necessaria, in questi tempi nebbiosi, senza patria e senza casa. Certo resiste svergognata e impudica perché, inutile nasconderlo, la prima immagine che ogni obbedienza evoca è la sottile vigliaccheria infantile di una sicurezza impossibile svenduta al prezzo della libertà; disobbedienza e rivoluzione hanno, invece, dalla loro un’epica e una letteratura enormemente più seducenti; eppure nulla è più patetico che vedere giganti urlanti di disobbedienza mentre nello stesso medesimo istante stanno obbedendo mansueti e inconsapevoli a imposture che solo loro non vedono.

Obbedire al corpo?

Fra me e il mio corpo, chi è che comanda? Chi è che obbedisce? È lui che obbedisce a me oppure a me corre l’obbligo di obbedire a lui. Chi è l’eversivo: lui che a ciel sereno può rompere il patto con me e non corrispondermi più fino addirittura ad uccidermi oppure io che non obbedisco alle sue regole?Sii il mio corpo è il titolo di un volumetto di Judith Butler e Catherine Malabou che riassume con la precisione di una freccia ben scoccata il senso del mio dire. Ma che ingiunzione è quella che intima un dato di fatto? Come fa il mio corpo a non essere mio tanto da essere necessario intimarglielo? E invece il nostro pregiudizio è proprio questo. Il mio corpo non nasce mio, lo diventa, mai del tutto, mai per sempre e solo grazie, almeno inizialmente alla decisiva intercessione dell’Altra/o perlopiù una madre. Inizialmente l’Altro è l’intermediario fra il cucciolo ed il suo corpo inerme ed incapace di parola e li in quelle prime battute della vita si giocano enormi quote di futuro. Parafrasando il vaticinio evangelico (perché di un vaticinio si tratta, di una prognosi; non a caso Cristo usa il verbo al futuro) possiamo dire: obbedirai al tuo prossimo come al tuo corpo.

Sin dal primo giorno di vita il cucciolo di uomo inizia la sua partita di accordi e disaccordi con il sentire somatico che solo una mamma (o chi per lei), figlia a sua volta della sua di storia di accordi e disaccordi con il suo corpo, ha il potere di armonizzare. Si intravede in queste parole il rimbalzo transgenerazionale di una certa attitudine a tollerare e gestire il tormento dell’avere un corpo cioè della grande palestra del discernere obbedienze e disobbedienze.

Si delinea il triangolo fatale dei primi giorni: un cucciolo di uomo; il suo corpo che urge; l’Altro che intercede. Come spesso accade per vederne la intima natura, per avere un’autopsia di questa triade occorre una catastrofe e la catastrofe tragica e tremenda di questo rapporto a tre è la sindrome del bambino scosso (un neonato urlante che muore strattonato e mosso da un adulto che ha perso la pazienza di ascoltare e ubbidire alla convocazione di quell’urlo). Il ciclo delle disobbedienze è questo: il cucciolo piange disperato a causa del suo sentire somatico e l’Altro, invece di obbedire e mettersi al servizio di quell’urlo, gli intima di tacere cioè di obbedire. Ma il cucciolo non sa ancora obbedire e l’Altro trova così insopportabile quell’urlo che invece che ubbidirgli facendo quello che è necessario scuote inutilmente il cucciolo intimandogli un silenzio che non sarà mai obbedito, fino ad ucciderlo.

Venire e restare al mondo è pura obbedienza a certe leggi dette “della natura” sebbene l’obbedienza a questo tipo di leggi non sia una vera obbedienza perché non si dà in natura la disobbedienza. In natura quel che accade non può non accadere. L’obbedienza non ha nulla di naturale. È pratica puramente umana

Essere e restare in vita, per tutta la vita, è una infinita replica di un racconto con questi tre personaggi: io, il corpo, l’Altro in un rapporto reciproco di vicinanze, distanze, gelosie, tradimenti, obbedienze, disobbedienze ma solo la pratica appresa di una obbedienza al corpo ben fatta genera spazio per l’amore; è la qualità dell’obbedienza al corpo che fa la disponibilità all’altro fino al paradosso, solo apparente, e tutto solo umano, di poter perdere il corpo per l’altro.

In questa triade, Io, corpo, Altro davvero non si capisce chi comanda a chi e chi obbedisce a chi. Abbiamo sin qui declinato la narrazione dell’io che obbedisce al corpo e questa obbedienza è funzione del rapporto con l’altro. Oppure possiamo dire che il corpo è rivoltoso per sua natura e quindi sia io che l’altro dobbiamo fare i conti con la riottosità indomita di un corpo in perenne trasformazione che cambia continuamente le regole del rapporto a suo piacimento.

Obbedire comunitario

Obbedire è nel lessico del bravo bambino. Il cucciolo di uomo è cresciuto e la sua vita si fa comunitaria e quindi legale. La vita comunitaria, soprattutto quando si fa istituzionale, fa continuamente i conti con il desiderio dei singoli partecipanti e con il terrore che ogni dinamica gruppale inevitabilmente genera: la sopraffazione e l’esclusione. La meteorologia affettiva nel gruppo segnala sempre possibile tempesta dovuta alla sommatoria di questi timori. Poi il gruppo, a cominciare dalla famiglia, si dà regole, prende decisioni e prende forma nelle funzioni di leadership e followership che a ben vedere altro non sono che un modo per declinare il desiderio e il timore.

Le dinamiche di gruppo hanno animato intere biblioteche di sociologia, antropologia, psicologia delle masse e dei gruppi ma all’osso il punto dolente e pietroso è: come si continua ad essere parte di un gruppo che emette una decisione che confligge con il pensiero/desiderio di un singolo. Che conti deve fare questo singolo? E il gruppo? E il leader? Sul piatto, incandescenti, sottomissione e rivolta. Il solito vertiginoso crinale: di qua la tirannia e la sottomissione, di là la rivoluzione e la rottura. In cima danza l’obbedienza ossia una partecipazione attenta, condizionata, non pregiudiziale, disposta a una parziale ma vigile rinuncia delle proprie ragioni, rinuncia che riconosce e distingue il bene personale dal bene comune e bla bla bla: definizione tanto lunga quanto stretto è il suo raggio di azione. Di qua e di là pensieri facili e selvaggi. In cima, in equilibrio, pensieri fragili che tentano di farci umani.

Obbedire è il vero capolavoro di ogni esistenza comunitaria, l’atto etico egemone di ogni appartenenza. Obbedire infatti è una scelta delicata e fragile che consiste nelle disponibilità a sopportare conflitto interiore solitudine e soprattutto l’esito di un discernimento in solitudine, un atto di fede, e un a mossa rischiosa. Obbedire non significa subire. Significa scegliere ogni giorno fra quiescenza e rivolta fino al martirio.

Parlare è obbedire

Ma c’è una guerriglia ancora più fonda. Non c’è una parola che non sia un’obbedienza. L’atto del dare un significato è tanto rischioso quanto un obbedire perché in fondo è proprio un’obbedienza.

La vita dell’uomo parlante cioè dedito al rischio di dare significato a segni e suoni è uno stato di obbedienza permanente. Ogni parola richiede obbedienza, anche una semplice preposizione (per non parlare dell’obbedienza al pronome personale Io o, peggio, Noi!); ogni “Sì” ha un perimetro di “No”. Ogni “voglio” è contenuto in un recinto di “non posso”. Recinti e perimetri che non contengono i “Sì” ed i “voglio” ma letteralmente li fanno. Anzi si fanno reciprocamente, si danno, come il verbo piove: senza soggetto senza complemento. Ogni parola è una dialettica fragile e cangiante fra obbedienza e disobbedienza e la follia è la disarmonia di questa dialettica o, se vogliamo, è l’unico vero atto di pura disobbedienza, a costi altissimi come sono sempre costose le disobbedienze, quelle vere; se qualcuno vuole sapere cosa sia l’armonia e la disarmonia di un significato lo chieda ad un artista e non ad uno psichiatra se non vuole in risposta una ottusa chek list che crede di dirigere l’obbedienza e la disobbedienza al cosiddetto “esame di realtà”! In parole semplici: vedere o sentire e quindi comunicare cose che non ci sono, stravolgere i significati “legali” ordinari, condivisi delle parole e delle immagini è la disobbedienza del folle e dell’artista. Ma chi paga il prezzo maggiore?

Obbedire, atto di fede

Il filo di libertà che ci rimane consiste nell’abitare un impervio territorio disponibile, una specie di no man’s land a cavallo fra la spietatezza della imbattibile regia del nostro corpo, scarabocchiato in culla dall’Altro, e le ingiunzioni dell’Altro, del capo, della comunità di cui siamo parte. La libertà è nella distrazione di questi due impostori.

L’Altro, il capo, la comunità sono, almeno virtualmente, sempre destituibili. Il corpo invece che come tutte le cose della natura non fa trattative, lascia nelle pieghe della autocoscienza e dello stare con sé stessi la libertà di una auto-revisione, conversione, preferirebbe qualcuno, il disinnesco di automatismi mentali che sembrano liberi ma non lo sono. Il disinnesco invece lo è. Auto-revisione, cioè il permettersi di non essere d’accordo con sé stessi è il pre-requisito di una obbedienza matura, adulta che, al pari di ogni auto-revisione, non tarda a rivelarsi per quello che è: un atto di fede e come tutti gli atti di fede è fragile, vacillante e rischioso, nel senso che potremmo accorgerci, prima o poi, di aver ubbidito male e rischiato invano. Nel bacino della consapevolezza di sé, obbedienza e disobbedienza si trasformano da reazioni, cioè da conati involontari, in azioni, cioè scelte e l’obbedienza, come tutte le scelte, deve prevedere, per quanto possibile, una revoca.

Chi mal-obbedisce esce logoro già alle 8 del mattino, prima di incontrare il mondo perché ha già speso enormi energie a ribellarsi, disobbedire, far valere i propri diritti con i suoi fantasmi e così si dispone a rendere periodica e sistematica a priori la disobbedienza.

È, questa, la soluzione istituzionale del bastian contrario al cui dolore è preclusa l’obbedienza e quindi crede che il lenimento dell’onta umiliante di obbedienza perpetua sia la disobbedienza perpetua (“fai sì quando dicono no e fai no quando dicono sì”). Obbedisce solo alla disobbedienza.

Disobbedienze ed obbedienze, che durino pochi secondi o vite intere sono operazioni artistiche e non condotte politiche. Sono come una grande giocata di un atleta: armonica, tempestiva, puntuale, irripetibile, sempre a rischio di figuraccia.

La vita e soprattutto la morte di Cristo, ma di tutti i martiri ed eroi rivoluzionari e quindi disobbedienti per antonomasia, vede convergere nella più riuscita ricongiunzione di opposti, l’apoteosi sublime di obbedienza e disobbedienza.

Quasi sempre un buon test per capire se le obbedienze e disobbedienze sono di qualità è, come sempre nella civiltà capitalistica, il prezzo.

Una disobbedienza (o obbedienza) senza rischi o costi, un’obiezione di coscienza non sanzionata, si chiama eversione. Vedere alla voce Cassius Clay/Mohamed Ali, per rimanere sul classico.

Un vero disobbediente è pronto a morire mostrandosi così campione di obbedienza. O viceversa che è lo stesso. La vera libertà, la vera anarchia, la vera rivoluzione non è obbedire a nessuno, ma scegliere a chi obbedire, rischiare di morire e forse accorgersi, in punto di morte, di aver sbagliato obbedienza.

di Walter Procaccio