I temi della libertà e della fraternità cristiana nell’analisi del cardinale Michele Pellegrino

Per partecipare a uno sforzo concreto

08 gennaio 2022

Pubblichiamo una seconda sezione antologica — dopo quella dello scorso 23 dicembre — tratta dalla lettera pastorale «Camminare insieme» del cardinale Michele Pellegrino (arcivescovo di Torino dal 1965 al 1977) dedicata ai temi della libertà e della fraternità affrontati nel documento.

Al punto 17 di Camminare insieme il cardinale Pellegrino riflette sulla questione della “libertà nella Chiesa” e si concentra sul tema del dialogo che, scrive, «dev’essere non solo accettato ma cercato, nella Chiesa locale, a tutti i livelli: tra il vescovo e tutta la comunità, tra i sacerdoti, tra sacerdoti e religiosi, tra sacerdoti e laici, tra le comunità e i gruppi. La libertà dev’essere rispettata nel campo della cultura, anche teologica: “sia riconosciuta ai fedeli, tanto ecclesiastici che laici, una giusta libertà di ricercare, di pensare e di manifestare con umiltà e coraggio la propria opinione nel campo in cui sono competenti” (Gaudium et spes, 62)». Al punto successivo afferma che «il diritto alla libertà fonda il dovere di usare della libertà. Usarne, come ammonisce san Paolo (Romani, 6, 12-19), evitando di ricadere sotto il dominio del peccato, ma facendosi servi della giustizia». E poi invita a un atteggiamento che oggi Papa Francesco definirebbe con una parola antica, “parresia”, per cui l’uso della libertà è finalizzato a «rivendicare il diritto di operare secondo il dettame della coscienza senza assoggettarci alle pretese di chi voglia imporci arbitrariamente le sue scelte senza averne l’autorità. Usarne per parlare e operare con sincerità e franchezza vincendo il rispetto umano e andando contro corrente se la coscienza ce ne impone il dovere». Essere liberi e schietti per contrastare quella mentalità, per dirla sempre con le parole di Francesco, per cui “si è sempre fatto così”, cioè «per vincere le tentazioni di un conformismo pigro e inerte che trova più comodo fare ciò che si è sempre fatto, ciò che non scontenta nessuno, invece di domandarci che cosa esige da me, in questo ambiente e in questo momento, l’adempimento del mio dovere. Non è dunque lecito rinunziare alla libertà di operare secondo coscienza, per paura degli altri, per preoccupazioni di carriera, per amore del quieto vivere. La libertà, diritto-dovere primario dell’uomo e del cristiano, dev’essere espressione di responsabilità. La libertà è sempre in ordine a qualche cosa. Non c’è libertà senza una meta. La libertà tende responsabilmente ad attuare l’amore» (n. 18).

Dal tema della libertà a quello del pluralismo il passo è breve, e al punto 19 si legge: «Il rispetto della libertà porta con sé il riconoscimento d’un legittimo pluralismo. Capita talvolta che chi rivendica per sé il massimo di indipendenza nei confronti dell’autorità si mostri prepotente nell’imporre agli uguali le sue idee e i suoi metodi. Mi riferisco in particolare al campo della pastorale. […] Sono troppi coloro che non partecipano allo sforzo comune, preferendo condursi secondo le idee proprie o di piccoli gruppi, sia per chiudersi in un conservatorismo rigido e infecondo, sia per lanciarsi all’avventura guidati da concezioni teologiche arbitrarie, incuranti della comunione col vescovo e con il resto della diocesi. Per alcuni tutte le iniziative comunitarie, anche se studiate lungamente, in dialogo aperto e paziente, sono oggetto di critica sistematica e demolitrice».

Il punto 20 segna il passaggio dalla libertà alla fraternità. «La fraternità cristiana, fondata sul battesimo e sull’eucaristia, comporta uno spirito vivo e iniziative concrete per superare le divisioni di ogni genere tra gli uomini in nome di Cristo venuto per riunire i figli di Dio dispersi dal peccato e per vincerne le cause. Esige anzitutto la testimonianza di comprensione, aiuto, rispetto, ascolto tra i membri della Chiesa, pur nella vitale e utile dialettica. Vuol dire inoltre creazione inventiva, in tutte le direzioni, di servizi alla comunione tra le persone umane, la cui crescita va stimolata da un’esperienza di reale condivisione, con riguardo tutto speciale a chi è più oppresso, emarginato, sofferente. [...] Dobbiamo essere i primi a dare questa testimonianza di fraternità incontrandoci fra noi intorno a Cristo, il vero Fratello maggiore, Colui nel quale solo possiamo trovare la sorgente dello spirito autentico di fraternità. […] Pregare insieme, lavorare insieme. Non si insisterà mai abbastanza sull’affermazione che il lavoro pastorale non è un lavoro da franchi tiratori; è un lavoro di Chiesa, deve essere attuato come Chiesa, comunitariamente. Il lavoro pastorale d’insieme, tra i preti, nello studio, nell’analisi della situazione, nella programmazione dell’attività, nell’esecuzione, dev’essere preso come un criterio irrinunciabile. Non sarebbe certo lavorare insieme accettare semplicemente una divisione del lavoro in determinati settori, senza che l’uno si interessi di quello che fanno gli altri. Questo non soltanto nell’ambito della parrocchia, ma nell’ambito della zona e della diocesi. Anche qui il cammino da fare è ancora lungo. È necessario superare una mentalità individualistica che rende difficile il dialogo e la collaborazione» (n. 21). […] «Ma lavorare insieme non basta. Lo spirito di fraternità deve portarci a vivere insieme, a praticare più largamente, tra i sacerdoti, la vita comune. […] Il senso comunitario, alimentato quant’è possibile dalla vita comune e operante nel lavoro pastorale in équipe, è anche un mezzo singolarmente efficace per rompere quell’isolamento del prete che costituisce una delle cause più importanti di frustrazione e di crisi. Il celibato scelto e vissuto per amore di Cristo e dei fratelli trova nello spirito comunitario un sostegno e una forza» (n. 22).

Con la fraternità, come per la sinodalità, ci troviamo al cuore della realtà della Chiesa. Pellegrino afferma al punto 24: «Nell’ambito della diocesi la fraternità è postulata dalla natura della Chiesa locale. Essa non è un puro dato sociologico e giuridico, ma una realtà di fede, poiché la diocesi, “aderendo al suo pastore, e, per mezzo del Vangelo e della SS. Eucaristia, unita nello Spirito Santo, costituisce una Chiesa particolare, nella quale è presente e opera la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica (Christus Dominus, n. 11)”».

La fraternità non è un dato acquisito una volta per tutte ma è un processo, che ha un nome preciso: conversione. «Siamo fratelli perché figli dell’unico Padre celeste, “il quale, per la sua grande misericordia, ci fece rinascere, risuscitando Gesù Cristo da morte, a una vivente speranza” (1 Pietro, 1, 3); perché riconosciamo in Cristo Signore il “Primogenito fra i molti fratelli” (Romani, 8, 29); perché siamo invitati a sedere all’unica mensa in cui Cristo si dà a noi come pane di vita. La preghiera (Padre nostro!), soprattutto la messa, deve esprimere e accrescere l’amore fraterno. È tempo di superare quella concezione grettamente individualistica della “pratica religiosa” per cui un cristiano ritiene di aver compiuto il suo dovere quando “ha assistito” alla messa domenicale. Nella messa dobbiamo riconoscerci fratelli, dobbiamo, se è necessario — e quanto è necessario e urgente! — convertirci alla fraternità. Dobbiamo deporre ogni egoismo, ogni risentimento; dobbiamo esaminare noi stessi se non vogliamo mangiare e bere la nostra condanna. Questo avviene, ci ammonisce severamente san Paolo ( 1 Corinzi, 11, 27 e ss.), se nell’incontro eucaristico chi sta bene non si cura di chi sta male. Certo, nessuno ha diritto di giudicare la coscienza del fratello sostituendosi all’unico giudice, Cristo. Ma guai a chi si vale del potere o del denaro per opprimere il debole, per provocare o mantenere situazioni d’ingiustizia, sperequazioni per cui “troppo spesso, in realtà, i diritti dell’uomo restano ignorati, se non scherniti, ovvero il loro rispetto è puramente formale” (Octogesima adveniens, 23), per cui “si danno delle situazioni la cui ingiustizia grida verso il cielo” (Populorum progressio, 30) (n. 28)».

a cura di Andrea Monda