La vecchiaia (è questo il nome che gli altri gli danno) può essere per noi il tempo più felice.
È morto l’animale o quasi è morto.
Vivo tra forme luminose e vaghe
che ancora non son tenebra.
Jorge Luis Borges comincia con questo incipit una delle poesie manifesto di tutto il Novecento: Elogio dell’Ombra. Lui, Omero moderno, esalta quel poco, tantissimo, che gli è dato da vedere, forme luminose e vaghe, che non hanno, però, il sapore della tenebra.
Ma, quello che ammalia più di tutto, in questa epoca di giovanilismi patetici, d’estetizzazioni ben oltre il confine dell’orrore, è la dichiarazione d’amore nei confronti della vecchiaia che apre la poesia.
La vecchiaia, questo il nome attribuitogli, che il Poeta con un filo d’ironia non sembra accettare pienamente, è difatti il nome che gli altri gli danno, può essere per l’uomo il tempo più felice.
Come suona stonato, quasi eversivo.
Invece è così.
Meravigliosamente così.
Perché, quando si è svegli di fronte a se stessi e al tempo che ci è dato da vivere, sentiamo quanto l’ultimo atto, come in ogni storia che si rispetti, sia il più prezioso da spendere. È il tempo in cui anche i desideri carnali, mondani, che tanto animavano e confondevano, sono passati dietro la linea dell’orizzonte, perché l’animale è morto o è quasi morto.
Resta l’essenza, un’essenza luminosa, vaga, imprendibile, ma che nessuno potrà mai confondere con la tenebra.
Ma occorre affidarsi all’enigma della realtà. Come Borges insegna.
Perché l’unico vero peccato è vivere in una realtà a due dimensioni, schiacciati in un’assenza totale di profondità.
Per aprirsi a questa visione non servono occhi di lince.
Solo una grande fame di luce.
di Daniele Mencarelli