La mobilitazione quotidiana della Chiesa a favore di una popolazione martoriata

Con l’odore delle pecore

 Con l’odore delle pecore  QUO-291
22 dicembre 2021

A Damasco la vita appare normale: il traffico è quello di una grande città del Medio Oriente, la gente si muove per recarsi al lavoro, i mercati espongono la loro merce, le botteghe numerose. Ma quello che si vede è solo una vetrina che non riflette necessariamente la realtà. Dopo anni di guerra, anche se non è finita e i combattimenti continuano nella provincia di Idlib nel nord del Paese, la crisi economica ha messo a dura prova i siriani. Tutti i siriani. La classe media è praticamente scomparsa, ritrovandosi “povera” da un giorno all’altro.

Per avere un’idea della situazione, sono sufficienti alcuni dati: lo stipendio medio di un dipendente statale è di circa 75.000 lire siriane. Un solo chilo di latte in polvere per neonati costa 12.000 lire. Per un pieno di carburante ne servono 20.000. Condizioni che hanno portato il 90 per cento della popolazione a vivere sotto la soglia di povertà e hanno “rubato” la speranza a 17 milioni di siriani.

«Questo mi colpisce molto e sono molto addolorato nel vedere che sta morendo la speranza», racconta il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria da tredici anni. «Ho visto naturalmente con molta pena, con molto dolore, morire persone, anche bambini, durante la guerra, ma dopo questa grave sofferenza la gente ancora coltivava un po’ di speranza; diceva che prima o poi la guerra sarebbe terminata e che si sarebbe potuto ricominciare a lavorare, per avere qualche soldo, magari riparare la casa e ricominciare una vita normale. Purtroppo, questo non sta succedendo», aggiunge. Oggi è scoppiata un’altra bomba che, senza rumore, colpisce inesorabilmente: la crisi economica.

Tredici milioni di rifugiati

Guerra e crisi sono una miscela devastante per la popolazione. Milioni di siriani hanno lasciato il Paese. Molti si sono rifugiati nel vicino Libano. Se ne contano circa un milione e mezzo nei vari campi allestiti oltre il confine. Altri quattro milioni sono stati accolti in Turchia. A questi, si aggiungono quasi un milione di persone nei vari Paesi europei. Gli sfollati non sono meno numerosi. Secondo dati forniti dalle Nazioni Unite 6,4 milioni di siriani hanno abbandonato le loro case, città, radici, e spesso anche i propri cari per stabilirsi in condizioni precarie in zone meno esposte al conflitto. Per tantissime famiglie la destinazione prescelta è stata Damasco, perché la capitale «non poteva cadere», ci dice una madre di famiglia. La capitale difesa strenuamente dall’esercito era considerata sicura. Ma non era preparata ad accogliere un flusso così massiccio di sfollati. E, soprattutto, non era in grado di fornire loro un lavoro.

Negli anni della guerra, scoppiata nell’estate del 2011, e fino alla fine del “Califfato” e alla caduta della sua roccaforte a Raqqa nel 2019, nel corso della quale sono rimaste uccise 500.000 persone, la vita di milioni di famiglie era un’odissea quotidiana per nutrirsi, curarsi, sopravvivere.

Incontrare gli sfollati

La madre di famiglia rifugiatasi a Damasco perché «non poteva cadere», si chiama Jacqueline. Vive in un quartiere povero della città con i suoi tre figli. Prima della guerra abitava a Ma’aloula, abitata in maggioranza da cristiani. Città famosa per il suo santuario dedicato a San Giorgio, ma più ancora perché lì si parla ancora oggi l’aramaico, la lingua di Cristo. La città è a qualche decina di chilometri a nord-ovest di Damasco, al centro di una valle. A dominare le case, in cima alla montagna, il santuario e un albergo, oggi in rovina. Da questo albergo, i jihadisti, per ben tre settimane, nel 2013, sparavano sugli abitanti. E nel clima di terrore che seminavano, mettevano in scena anche esecuzioni pubbliche. L’esercito siriano, successivamente, li ha cacciati. Ma, nel frattempo, gran parte dei cristiani sono fuggiti.

Jacqueline se n’è andata per Damasco con i figli, ma senza Ghassan, suo marito, rapito dai jihadisti, che in un primo momento avevano chiesto un riscatto, ma poi si erano resi irreperibili. Jacqueline è rimasta tre anni senza sapere nulla sul suo destino. Poi, un giorno, nel 2016 un ufficiale dell’esercito siriano l’ha contattata per informarla che il corpo di Ghassan è stato ritrovato in Libano, identificato grazie a un esame del dna. Tre anni di attesa che non finiscono con il drammatico annuncio. Jacqueline vive con un reddito assolutamente insufficiente ad acquistare i beni più essenziali ed è aiutata dalle Suore di Gesù e Maria. La piccola comunità religiosa è molto attiva. Le cinque religiose percorrono ogni giorno le strade della città per sopperire ai bisogni delle famiglie povere. Portano cibo, medicine, e per Natale ci saranno vestiti per i bambini. Suor Antonietta non si stanca mai. Cerca fondi per poter installare una doccia nella casa di Jacqueline. Una casa piccola, con un’unica stanza per vivere e dormire. Dentro, una stufa, un frigorifero, un letto e un divano. Fuori dalla stanza, un angolo cottura con un fornello a gas e un lavandino nel quale scorre solo acqua fredda, non potabile. C’è anche un gabinetto spartano e presto, spera la religiosa, ci sarà anche una doccia.

Jacqueline non vuole tornare a Ma’aloula. Nonostante le precarie condizioni di vita, preferisce rimanere nella capitale per dare un futuro ai suoi figli: «Le scuole sono migliori a Damasco», dice.

Georges e Marie

A pochi chilometri di distanza, suor Antonietta visita un’altra famiglia. Una coppia con tre figli di età compresa tra i 16 e i 18 anni. Sta piovendo, non c’è corrente elettrica (in tutto il Paese l’elettricità c’è solo per pochissime ore al giorno), e alcune gocce di pioggia cadono dal tetto di lamiera, finendo in un secchio. Come molte famiglie che non possono permettersi un generatore privato, Georges e Marie (nomi di fantasia, perché la famiglia ha ricevuto minacce di morte e preferisce mantenere l’anonimato) hanno una batteria che alimenta una lampada a led. Vengono da Homs, dove erano apicoltori. In una notte, hanno abbandonato tutto e sono partiti in pigiama, sotto il fuoco delle milizie. Sono fuggiti a piedi, poi in auto e infine in autobus verso Damasco. Poco dopo il loro arrivo nella capitale, Georges ha avuto un infarto. Ha subito un intervento chirurgico e si è salvato per miracolo, ma soffre ancora dei postumi e non è più in grado di lavorare e guadagnare uno stipendio. È quindi Marie, con la sua piccola attività di sarta, a sfamare i cinque membri della famiglia. Ma ora l’inflazione è tale che tutto ciò non è più sufficiente. La donna ha anche dovuto ridurre i ritmi a causa di reumatismi alle mani. Quindi, è stata presa la decisione di ritirare il figlio da scuola per mandarlo a lavorare e integrare così il magro reddito familiare. A 18 anni, il ragazzo consegna cereali e fa il pendolare tra la fabbrica di Homs e la capitale, Damasco. Dei cinque membri della famiglia, è l’unico che è tornato a Homs. L’anno prossimo, però, tornerà a scuola, per prendere la maturità, grazie al sostegno delle religiose.

Homs: rasato al suolo un terzo della città

Senza sostegno, le comunità cristiane in Siria non potrebbero tornare a pregare nelle loro chiese, danneggiate, saccheggiate o anche bombardate. Nell’arcidiocesi di Homs dei Greco-Melkiti, i finanziamenti delle Caritas, di Aiuto alla Chiesa che Soffre e di Sos Chrétiens d’Orient, sono stati utilizzati per la ricostruzione della cattedrale, nel cuore della terza città più popolata del Paese. «Quando sono tornato a Homs, non sono riuscito a entrare nella sede dell’episcopato perché era ancora assediata da milizie armate», racconta l’arcivescovo Jean-Abdo Arbach. «La prima volta che sono entrato, il 9 maggio 2014, Homs era completamente distrutta, tutte le case erano rase al suolo e c’erano soltanto venti cristiani nella città».

Monsignor Arbach si è quindi rimboccato le maniche per partecipare attivamente alla ricostruzione prima di alcune abitazioni, poi della sua residenza episcopale e, infine, della cattedrale. In città sono ora tornate alcune famiglie cristiane di diverse confessioni. Sono ancora poche, ma è un segnale incoraggiante. Anche la Chiesa greco-ortodossa ha ripreso vita con 140 famiglie. Prima della guerra era la comunità più numerosa.

Dalla guerra
alla crisi economica

Monsignor Arbach prende carta e penna e con qualche disegno spiega che la situazione odierna è più difficile rispetto ai tempi della guerra, che a Homs si è conclusa nel 2014 dopo un accordo tra i ribelli e le forze governative. «Durante la guerra — spiega l’arcivescovo — c’era una certa situazione e, dopo, un’altra. Durante la guerra in un certo senso ringraziavamo Dio di non farci mancare di nulla. Le frontiere con il Libano e la Giordania erano aperte e potevamo anche muoverci». Sembra paradossale ma, effettivamente, il colpo di grazia è arrivato dopo il conflitto, con la crisi economica e la pandemia che ha portato alla chiusura del confine con il Libano. Questo si aggiunge alle sanzioni imposte sulla Siria, in particolare con il Caesar Act firmato dal presidente statunitense Donald Trump nel 2019 ed entrato in vigore nel giugno del 2020. Da allora, si sono ritirate tutte le aziende straniere, lasciando i siriani alla propria sorte. «Ci siamo ritrovati come assediati — dice il presule — non potevamo più muoverci, non avevamo più soldi in contanti, non c’erano più né importazioni né esportazioni, e i prezzi sono saliti alle stelle. La gente ha toccato il fondo».

Le famiglie si sono ritrovate in situazione di povertà in pochissimo tempo, a cominciare dai villaggi nei dintorni di Homs, Damasco e Aleppo, perché nessuno aveva abbastanza soldi per poter andare in città. Parallelamente, i servizi sanitari si sono degradati: mancano di mezzi e un intervento chirurgico, che prima della guerra costava 200.000 lire siriane, oggi ne costa due milioni. Lo stesso vale per i medicinali, costosissimi e inaccessibili.

Mentre monsignor Arbach espone la situazione, va via la corrente elettrica, subito sostituita da un generatore. «A Homs abbiamo solo due ore di elettricità al giorno», dice. Per la maggior parte delle famiglie che non possono permettersi un generatore privato o collettivo, per il quale serve pagare la benzina, in casa è tutto spento: frigorifero, lavatrice, televisione. In inverno, il riscaldamento è un lusso a causa del prezzo del mazut.

Tutto questo non incoraggia il ritorno dei cristiani. Anzi, finisce per far fuggire chi finora aveva resistito. I giovani non vedono un futuro nel Paese. Sono colpiti da angoscia e depressione. «Recentemente, abbiamo avuto dieci famiglie che hanno venduto tutto per andare in Bielorussia», spiega monsignor Arbach. «Adesso sono bloccate al confine con la Polonia e non possono andare da nessuna parte. Hanno già perso tutto. Che ne sarà di loro?», si chiede.

I gesuiti di Homs con i giovani

Nella residenza dei gesuiti a Homs, giovani cristiani, ma anche musulmani, si incontrano quasi ogni giorno per partecipare alle varie attività della parrocchia. Padre Vincent de Beaucoudrey è uno dei padri gesuiti di Homs. Lo incontriamo nel piccolo cortile quadrato della residenza, davanti alla tomba di padre Franz Van Der Lugt, sgozzato proprio in questo cortile il 7 aprile 2014 dai jihadisti.

Padre Vincent, Mansour in arabo, racconta le difficoltà dei ragazzi con cui lavorano i gesuiti. Sono legate alla mancanza di lavoro, di prospettiva e di speranza. «Viviamo il più possibile con loro», dice. «Cerchiamo di aiutarli spiritualmente, e naturalmente — aggiunge — soffriamo con loro». Il gesuita spiega che la sua comunità opera su due livelli, sociale e pastorale, e che viene fatta una chiara distinzione tra i due ambiti. Circa un migliaio di giovani si incontrano per giocare a pallacanestro, a calcio, per attività teatrali, o feste. Sono tutti momenti di relax che i sacerdoti condividono con loro, ma sono ben separati dai momenti dedicati a Dio. «Se vengono, sanno perché vengono: se per giocare, o per pregare. Non vogliamo mischiare le due cose», spiega padre Vincent. Il quartiere è così devastato che non esistono praticamente altri spazi di incontro. Quindi molti giovani vanno dai gesuiti e ogni anno se ne conta un 20 per cento in più.

Ci sono anche intensi momenti di condivisione, di ascolto e di preghiera. Ed è qui che padre Vincent si lascia sopraffare dall’emozione, quando gli si chiede quale è il futuro di questi ragazzi: «Non lo so, non lo so», risponde, con le lacrime agli occhi. E aggiunge: «Non possiamo pensare nel lungo termine, cerchiamo di vivere, di lasciarci toccare dal Vangelo. Il carisma dei gesuiti è quello di aiutare le persone a prendere decisioni, e quando sei un cappellano universitario pensi ad aiutare le persone a costruire la loro vita. Ma cosa si fa quando non si sa cosa è possibile decidere? È complicato».

Dopo un profondo respiro, Vincent de Beaucoudrey prosegue: «Una delle nostre più grandi difficoltà è quella di aiutare le persone a discernere. Quando si chiede a qualcuno di scegliere, significa che può scegliere tra due cose buone. Ma non si può parlare di scelta quando tutte le vie di uscita sono bloccate. Non hanno niente da scegliere in questo contesto, sono senza luce alla fine del tunnel. Quando sappiamo questo, quando parliamo con loro, quando cerchiamo di parlare del loro futuro, ci dicono “sì, ma poi cosa?” Non hanno più alcun motivo di speranza». Il gesuita ammette che questa condizione lo porta a toccare i limiti del discernimento ignaziano. «Possiamo aiutare al discernimento solo quando si deve scegliere tra due cose buone. Non c’è alcuna decisione da prendere, davanti al Signore, tra una cosa buona e una cattiva, si sceglie la cosa buona. Ma questo non è più discernimento», dice, prima di continuare: «Qui i giovani possono scegliere tra due piccoli lavori, se hanno la fortuna di avere questa scelta. Ma come possiamo aiutarli a discernere quando devono scegliere tra fare il servizio militare [ndr: il servizio militare può durare fino a sette-otto anni, perché il Paese è in guerra] o andare all’estero? Quando vengono da me e mi chiedono se devono restare o andare, non posso rispondere. Posso solo dire di prendere cura di loro stessi, e che Dio li accompagni».

Aleppo: una chiesa da campo

Prima della guerra, Aleppo era la città più popolosa della Siria, davanti alla capitale Damasco. Oggi non è più così. Dei 4,6 milioni di abitanti nel 2010 ne rimangono, secondo una recente stima, circa 1,8 milioni. Basta alzare lo sguardo per vedere il numero impressionante di appartamenti vuoti e abbandonati.

La guerra ha lasciato ferite profonde, visibili e non, nel cuore della città. Arrivando da Homs, quindi dal sud, le devastazioni della guerra non si vedono immediatamente. Bisogna entrare in città, nel centro storico, patrimonio mondiale dell’Unesco, per vedere che è rimasto ben poco. Macerie dappertutto, come se la guerra fosse terminata solo alcuni giorni fa. Nella zona rossa di Aleppo, dove, quando si sparava, non si poteva né entrare né uscire, incontriamo un sacerdote argentino che si è stabilito ad Aleppo nel 2017. Qui ha ricostruito poco a poco la parrocchia, per potere tornare a celebrare messa. In soli quattro anni, padre Hugo Fabián Alaniz ha dovuto trovare nuovi spazi per ingrandire la parrocchia. Non ha manie di grandezza, ma aiuta così tante famiglie che hanno sempre bisogno di nuovi locali. Ogni giorno, nel seminterrato convertito in oratorio, la comunità di volontari vede arrivare centinaia di ragazzi, aiutati da studenti universitari per i loro compiti. Ci sono laboratori di cucito, di cucina e ogni sorta di attività per le 1200 famiglie che la parrocchia aiuta quotidianamente. Dalla cucina escono pasti caldi che giovani volontari portano alle famiglie povere. Il laboratorio di cucito rende i vestiti riutilizzabili. Non si butta nulla. Quello che si fa in questi spazi è quasi un miracolo quotidiano. Padre Hugo ha iniziato con ventiquattro ragazzi. Sono oggi più di cinquecento. «Le famiglie sanno che siamo qui grazie al passaparola», dice.

Nella città, a pochi passi dalla sua parrocchia, sono molto attivi i greco-ortodossi. Davanti alla chiesa si è formata una piccola fila di gente. Lì, oltre ai vestiti, i pasti caldi e le medicine, distribuiscono anche denaro alle famiglie bisognose, tenendo una rigida contabilità. Cambiando quartiere, si raggiunge un piccolo negozio, “Drop of milk”. È l’unico punto di distribuzione di latte in polvere per tutta Aleppo. Il latte è costosissimo, inaccessibile. I fratelli maristi riescono ogni giorno a fornire latte per tremila bambini.

Qualche spiraglio?

Il nunzio apostolico in Siria non è molto ottimista. Si dovranno affrontare ancora giornate dure, ma per il cardinale Zenari questa situazione un giorno terminerà. La ricostruzione e la ripresa economica sono comunque ancora lontani: «I segnali sono, purtroppo, di un muro contro muro», dice, attribuendo parte della situazione di stallo alle sanzioni internazionali, e un’altra parte ad «altri mali quali, a esempio, una corruzione crescente».

Qualche spiraglio, invece, lo intravede monsignor Antoine Audo. Il vescovo di Alep dei Caldei osserva qualche piccolo cambiamento: «Un funzionario degli Stati del Golfo è venuto a visitare il presidente siriano; c’è l’apertura delle frontiere con la Giordania, con l’Iraq, gli scambi economici ripartono». Sottolinea anche l’azione dell’Egitto per fare rientrare la Siria nella Lega Araba. «Ci sono dei segnali e mi sembra che questo possa anche essere il preludio a un cambiamento di atteggiamento e di politica a livello internazionale», conclude il vescovo gesuita: «Ci deve essere un accordo chiaro e fermo, ad alto livello, tra gli Stati Uniti e la Russia per voltare pagina e iniziare un nuovo percorso».

di Jean-Charles Putzolu