L’interpretazione del filosofo Giorgio Agamben

Oltre le barriere

 Oltre le barriere   QUO-284
14 dicembre 2021

Il 1881 è un anno prolifico per la letteratura, tra Ritratto di signora di Henry James e gli Spettri di Ibsen, Malombra di Fogazzaro e I Malavoglia di Verga, solo per citarne alcuni; a questi dobbiamo però aggiungere il Pinocchio di Carlo Lorenzini, meglio noto come Collodi (il nome del paese della mamma), anche se non ancora volume (bisognerà aspettare altri due anni), ma all’interno del «Giornale dei bambini» e come «Storia del burattino»: Le avventure di Pinocchio sostituiranno allora l’originale, che sarà “retrocesso” a sottotitolo. Una storia niente affatto riservata ai piccoli come la destinazione in quel tipo di rivista poteva suggerire allora, ma narrazione che viene da molto lontano, e destinata a offrire nuove possibilità di significato nel corso del tempo.

La critica militante ha affrontato spesso questo moderno e insieme assai antico personaggio: lo fa ad esempio Giorgio Agamben con Pinocchio. Le avventure di un burattino doppiamente commentate e illustrate (Torino, Einaudi, 2021, 167 pagine, 20 euro) con programmatici riferimenti ad un lavoro di Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo edito prima da Einaudi (1977) e poi da Adelphi nel 2002, in cui la creatura collodiana era letta anche alla luce delle interpretazioni che lo mettono in relazione con i miti e i racconti di origine.

Il discorso di Agamben sulle letture di Pinocchio a sua volta affronta i rimandi al magma di relazioni tra narrazione arcaica, il mythos, racconto appunto, e le elaborazioni successive, nelle quali confluiscono anche elementi cristologici che l’autore sembra aver però in gran dispitto visto che la cristologia per lui «è la più blasfema e scipita delle discipline teologiche», senza peraltro spiegare i motivi di un tale perentorio giudizio. Se è possibile rintracciare in quel libro tracce di racconti di fate che scaturirebbero secondo alcuni, tra cui Lang, qui citato, da elementi pre-cristiani, allora è possibile attraversare il simbolismo di Pinocchio anche con il lume del riferimento cristologico, il che non esclude radici più antiche: non solo greche, ma anche egizie, sumeriche, assire. L’avvento del Cristo pone le sue radici in un contesto in cui la cultura ebraica era entrata in contatto con quella ellenistica e romana e con elementi di pensiero che provenivano, attraverso gli scambi commerciali e culturali, da assai lontano: senza questa coscienza non se ne comprenderebbe neanche la novità e la portata religiosa e sociale.

È evidente che il contesto di Pinocchio ha motivi che affondano in una loro parte nel pre-logico, anche perché una zona della nostra memoria proviene da elementi non consci e che portiamo in noi attraverso infinite mediazioni. È in questo modo che si può intendere, senza porre barriere preconcette, la radicalità di quel messaggio, che ancora oggi lascia spazio a diverse interpretazioni. Intanto la metamorfosi, che viene da lontano, è, come ha giustamente scritto Margaret Doody, «l’essenza del vivere», che ci aiuta a comprendere l’essenzialità del cambiamento attraverso quelle che noi chiamiamo forme. Cui non sono estranei scrittori come Kafka, Barrie o Carrol, e ancora prima lo stesso Shakespeare, non solo quello del Sogno di una notte di mezza estate, ma anche quello terminale della Tempesta.

Da questo punto di vista la perenne fuga del burattino dalla casa, dalla scuola, dalle buone tradizioni, può essere letta come cerca (nel senso della quête cavalleresca, se a questa si dà una significazione non solo romanza) del senso della vita e di accettazione del cambiamento insito in quel senso.

Da questo punto di vista Pinocchio potrebbe essere interpretato anche come nuova narrazione di un antico tentativo di fuggire da una casa del padre in cui regna la costrizione e il senso di morte, e che deve essere abbandonata per cercare — ancora una volta la cerca, le cui radici sono più antiche della ripresa medioevale — una nuova figura di riferimento, come accade, e non è un caso, in un romanzo moderno come l’Ulisse di Joyce. È a partire da questa catastrofe, secondo l’interpretazione di René Thom, che l’educazione del burattino può essere letta come discontinuità rispetto ai moduli educativi borghesi anche dopo l’unificazione nazionale. E qui allora non potremmo non pensare ad Arthur Rimbaud, un’altra figura di ragazzo scapestrato, stavolta in carne, ossa e storia, sempre in fuga dalle istituzioni borghesi, alla ricerca di nuovi universi di senso e nuove terre — anche lui soggetto a mutamenti e trasformazioni — il cui cammino ha attraversato (non solo) l’Europa, rappresentando contemporaneamente la negazione delle sue tradizioni e soprattutto del suo pensiero.

È per la capacità del mito di narrare lo spazio e il tempo, le loro percezioni, la domanda sul prima della materia, che non possiamo mettere da parte gli sviluppi del simbolismo legati alla figura di Cristo. Che il legno sia in greco Yle, materia, la dice lunga sulla possibilità di proliferazione di significati verso l’accezione di materia originaria, ritorno all’utero materno, generatore dell’esistente. Il fatto che alcuni abbiano visto in questo legno anche la materia della croce di Cristo non può far gridare allo scandalo. Che poi questo legno umile che richiama la pietra scartata divenuta testata d’angolo del Salmo 118 e della ripresa in Matteo sia associato alla possibilità del richiamo ancestrale al pharmakòs, la vittima immolata alla salute della città, non toglie nulla alla realtà del Cristo come agnello sacrificale presente, anche in modo non consapevole, nelle narrazioni che apparentemente sembrano esserne prive. L’assonanza di Giuseppe e Geppetto, il loro mestiere di falegnami, il ruolo apparentemente secondario di padri putativi, la loro castità, il legno come materia significante e proliferante ulteriori elementi di senso, non sono alla base di una mera esercitazione accademica, ma un tentativo di trovare radici profonde alla luce di una scrittura che è essa stessa madre di significati e non solo loro passiva narrazione.

Pinocchio rimane perché attinge a tutte queste non gratuite possibilità di trovare significato: al racconto, all’esegesi, alla vita stessa e alle sue radici. Agamben, da parte sua, affronta alcuni di questi tentativi, dalle fonti romanzesche, Apuleio tra tutti, alle interpretazioni di quelle origini in Erasmo, fino ad altre narrazioni del burattino folle, come quella di Jarry o all’analisi dei sogni di un allievo di Ferenczi, Géza Róheim, non in linea con quella freudiana, anzi.

Quella cristologica, se la si intende come richiamo alla simbologia del legno, del sacrificio, della morte e rinascita, del tradimento, non è affatto gratuita, perché fa parte di quella capacità di proliferazione di senso che va oltre anche le stesse convinzioni dell’autore.

di Marco Testi