Oltre il muro d’incenso

 Oltre  il muro d’incenso  QUO-281
10 dicembre 2021

Il cammino insieme che la Chiesa compie nella storia dell’umanità richiede la sincerità dei sentimenti e la condivisione autentica delle prospettive, da percorrere tuttavia attraverso l’audace esercizio dell’autocritica che dissolve ogni «muro di foglio e d’incenso» (don Lorenzo Milani). All’inizio di ogni processo sinodale non si può omettere la possibilità, sempre aperta a scenari inediti, che la Chiesa locale critichi con trasparenza sé stessa riguardo alla inevitabile messa in discussione di stili, scelte, linguaggi e relazioni pastorali. Infatti la comunione si costruisce sulla correzione fraterna (Mt 18, 15-17) che accorda (syn-phoneo) i limiti di ciascuno attraverso l’amore del Padre. Una partecipazione in grado di coinvolgere le soggettualità ecclesiali si sviluppa alla luce dell’accettazione consapevole di differenze e prospettive. La missione della Chiesa diventa sinodale nella misura in cui emerge il tratto singolare di ciascun cristiano.

Alla radice della trascurata ma urgente pratica ecclesiale dell’autocritica si trova lo scarto costante tra la forza trasformatrice del Vangelo e la concreta esperienza che i cristiani ne fanno. La Chiesa è fedele alla sua sorgente nella misura in cui esce da sé stessa, abbandonando sicurezze mondane e maschere rassicuranti, al fine di lasciarsi inquietare da questa distanza teologica ed esistenziale — a tratti dolorosa — che le dona la possibilità di non prendersi troppo sul serio nella misura in cui viene accettata e valorizzata. L’autocritica consente di palesare e colmare quello che ancora la distanzia dalla freschezza del kerigma: è nelle fratture e nelle crisi che la comunità ecclesiale viene chiamata a discernere la dose necessaria di radicalità evangelica da adottare (sia la parola crisi che critica derivano dal verbo greco krino). Il Vangelo, infatti, costituisce il criterio infallibile di autenticità che distingue nella Chiesa ciò che le permette di vivere secondo il progetto di amore e giustizia di Gesù di Nazareth da ciò che invece glielo impedisce.

Questa tensione genera e manifesta nella comunità ecclesiale una salutare inquietudine perché un Altro la abiti di senso e le indichi l’orientamento. La forza del Vangelo innesca così un dinamismo che vede nella conversione non lo sforzo moralistico o ascetico, bensì la traduzione esistenziale di un modo alternativo di amare e di sperare. Un’esemplare testimonianza in tale direzione ci viene fornita dal priore di Barbiana, don Lorenzo Milani, che in una lettera del 3 agosto 1959 a Nicola Pistelli — consigliere nazionale della Democrazia cristiana — così tentava di spiegare la necessità dell’arma della critica: «Cattolico è dunque chi si ricorda che i cardinali e i vescovi son creature fallibili. Eretico chi mostra per loro un rispetto che travalica i confini del nostro Credo. […] Noi la Chiesa non la lasceremo perché non possiamo vivere senza i suoi Sacramenti e senza il suo Insegnamento. […] Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo il loro bene, cioè che diventino migliori, più informati, più seri, più umili».

Dal momento che differenti itinerari esistenziali e culturali si incontrano nell’odòs ecclesiale è opportuno che interagiscano tra loro attraverso processi di libertà improntati a maggiore trasparenza. Già nel 1970 Karl Rahner parlava di due forze polarizzanti presenti all’interno della Chiesa: libertà e manipolazione. In particolare esse si ripresentano nello spazio comune e informale delle relazioni intra-ecclesiali: non poche volte la tendenza manipolatrice (incarnata non unicamente da coloro che detengono il governo ecclesiale) si mimetizza in «un’apparente tolleranza, pazienza, gentilezza ecc., cose tutte che possono essere utilizzate per giustificare, sotto la sembianza della loro naturalezza, il possesso di illegittime pretese di dominio» (K. Rahner, Libertà e manipolazione, Bologna, EDB, 2013, pagina 49). I processi intensi di libertà invece favoriscono la condivisione, la correzione fraterna e il desiderio di sincerità come tracce di un discernimento che diventa comunitario affinché gli affetti disordinati, che abitano tutti i soggetti ecclesiali, possano essere sottratti alla coltre dell’ipocrisia. Dunque l’autocritica può diventare un valido strumento di liberazione ecclesiale quando si riconosce la provvisorietà di una scelta pastorale o la corruzione del sistema ecclesiastico. In questo senso possiamo anche interpretare più in profondità il carico, non soltanto morale, dello scandalo degli abusi di potere e sessuali all’interno della Chiesa cattolica: oltre all’atrocità della perversione emerge la resistenza alla libertà di un determinato sistema ecclesiastico che ha favorito il silenzio manipolatore. Risultano illuminanti le recenti parole del presidente della Conferenza episcopale francese, monsignor Éric de Moulins-Beaufort: «Dobbiamo riconoscerlo e confessarlo: abbiamo lasciato svilupparsi un sistema ecclesiastico che, lungi dal portare la vita e aprire alla libertà, distrugge, schiaccia, schernisce esseri umani e i loro diritti più elementari. Siamo obbligati a constatare che la nostra Chiesa è un luogo di gravi crimini, di terribili attacchi alla vita e all’integrità di bambini e adulti».

Lo sgretolamento di ciò che non corrisponde al Vangelo di Gesù Cristo, espressione sovversiva di vita e libertà, predispone ad una nuova modalità di ascolto da parte della Chiesa in ordine alla recezione e all’accoglienza delle differenti istanze critiche volte a favorire l’autocritica che salva. A volte la voce scomoda di coloro che la Chiesa teme o allontana realizza una riserva inedita nella prospettiva del suo cammino di auto-evangelizzazione: le relazioni con queste persone infatti sono improntate allo stile accogliente e misericordioso tipico della rivelazione cristiana oppure si ispirano ad un “Vangelo diverso” (Gal 1, 8)? Bisogna riconoscere con realismo la presenza di una profezia esterna al recinto ecclesiale che, con la carica propria delle marginalità esistenziali, provoca al suo interno un rovesciamento salvifico ed è fondata su quella che J.B. Metz chiamava l’autorità dei deboli: «Cosa accadrebbe allora se gli uomini potessero costruire la loro felicità solo sulle basi di un oblio delle vittime, privo di compassione, ossia su una cultura dell'amnesia nella quale, tutt’al più, il tempo deve guarire ogni ferita? Nell’autorità debole di chi soffre è ancorata quella responsabilità ineludibile dell’io che, dal punto di vista cristiano, si chiama “coscienza”, e ciò che chiamiamo “voce” di questa coscienza è la nostra reazione all’irruzione del volto estraneo di coloro che soffrono».

Se la Chiesa si lasciasse commuovere dall’autorità debole di tante minoranze, dei nuovi poveri o delle persone emarginate e discriminate, attraverso un ascolto empatico di coloro che — cercando scampoli di Vangelo — la spingono sui crinali della sincerità e della vulnerabilità, godrà di una posizione meno certa e stabile, ma vivrà l’ebrezza dello Spirito: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3, 8). La libertà dello Spirito è paragonata all’imprevedibilità del vento, all’incapacità umana — e quindi anche ecclesiale — di poterlo continuamente gestire e manovrare. Occorre lasciarsi condurre dal Vangelo senza manipolarlo.

di Roberto Oliva