L’altro come un fratello

 L’altro come un fratello  QUO-281
10 dicembre 2021

«Questo tempo chiede il coraggio di riprendere una frase diventata celebre: “Camminare insieme”. Dico, ho il coraggio, e ce ne vuole, perché di fronte a tutte le constatazioni, che hanno purtroppo qualche fondamento, del “fallimento” della Camminare insieme, parlarne ancora suppone una certa audacia; eppure io credo che dobbiamo veramente camminare insieme. Non è un programma nato da quella lettera, è ben chiaro. Camminare insieme vorrà dire accettare e cercare il dialogo, confrontarsi, ma camminare veramente insieme non pretendendo che gli altri camminino senz’altro con me, senza che io mi sforzi di camminare con gli altri». Così il cardinale arcivescovo di Torino, Michele Pellegrino, commentava, nel giugno del 1974, gli effetti della sua lettera pastorale più famosa, quella che diceva il tentativo reale di uno stile nuovo, quella che sarebbe stata l’espressione di una metodologia nuova, o almeno rinnovata, del vivere l’essere Chiesa in un mondo cambiato, in quel caso in una Torino del boom industriale post-bellico, piegata, nel tessuto sociale, dal drammatico problema operaio.

Esattamente cinquant’anni fa, l’8 dicembre 1971, il cardinale Michele Pellegrino ultimava la sua lettera pastorale diventata certamente la più celebre, pubblicata poi all’inizio di gennaio 1972 e rivelatasi da subito un caso editoriale: sessantamila copie vendute nei primi sei mesi dall’uscita. La constatazione umile e tenace del vescovo di Torino, appena due anni dopo tale pubblicazione, ha di che far riflettere. Non è un amaro commento o una lamentevole osservazione, ma un accorato rilancio da parte di chi non si stanca di riproporre il semplice ed essenziale cuore del messaggio di Gesù Cristo. Se poi pensiamo che potremmo correttamente sostituire “camminare insieme” con la parola “sinodo”, certamente quell’evento — la sua preparazione, la stesura e la complicata ricezione — risuona oggi ancora più eloquente.

Se da una parte la Camminare insieme rimanda a ciò che abbiamo appena iniziato come Chiesa universale, un sinodo sulla sinodalità contemporaneamente ci ricorda, proprio nelle parole sopra citate, la fatica di un movimento, la fatica di far muovere con stile il corpo ecclesiale di cui siamo parte. L’invito di Papa Francesco affinché tutta la Chiesa, “facendo sinodo”, “si faccia sinodo”, cioè riflettendo insieme cammini insieme, suona molto simile all’invito accorato e audace di Pellegrino a due anni e mezzo dalla sua lettera pastorale. Il Pontefice ripropone di riflettere, ma “in movimento”, su ciò che sta al cuore della buona notizia del Vangelo: il cammino comune possibile degli uomini e delle donne nello stile di chi si è rivelato il “Dio con noi”. Queste assonanze, buoni suoni, tra la Camminare insieme e l’inizio del cammino sinodale ci invitano a guardare, quasi come in uno specchio promettente ed esigente, a ciò che fu per Torino il processo che portò alla Camminare insieme.

Potremo dire che quell’evento espresse soprattutto un doppio consegnarsi fiducioso, un doppio atto di fede. Fu innanzitutto un grande atto di fiducia di fronte alla realtà sociale cambiata, effervescente, promettente, ma anche pericolosa. I gruppi di ascolto realizzati in 107 punti della diocesi furono soprattutto questo: un atto di fede nella capacità dei cristiani e in molti casi in ogni uomo di buona volontà, di saper esprimere e intravedere le priorità da scegliere per la vita della Chiesa, a partire dai “segni dei tempi” che la Gaudium et spes aveva invitato a cogliere. Un laborioso lavoro della base e dalla base, un credere al sensus fidei di ogni battezzato, un reale affidarsi. Ma fu vero e necessario anche un secondo consegnarsi o un secondo atto di fiducia, in questo caso da parte di chi si sentiva interpellato, e a cui veniva data finalmente la parola. Tutti furono invitati a fidarsi dell’organizzazione “Chiesa”, dell’istituzione che aveva messo in moto quel nuovo modo di porsi in ascolto, istituzione che dava e richiedeva parola. Per poter parlare, per poter raccontare vissuti, per proporre e richiedere, forse anche in modo maldestro, occorreva innanzitutto dar fiducia all’interlocutore. Occorreva poter ancora credere di essere ascoltato per ciò che si è.

Sicuramente si stava vivendo un momento storico particolare, quello dell’inizio degli anni Settanta, ma tale atto di fiducia nell’istituzione fu certamente possibile perché Pellegrino aveva costruito pazientemente, e con lui i suoi collaboratori, un tessuto di relazioni che rendevano credibile e autorevole la proposta di lavorare insieme in un cammino comune. Lo aveva fatto attraverso la sua instancabile disponibilità a spiegare il concilio e i suoi documenti, in ogni realtà in cui fosse richiesto; lo aveva fatto attraverso il suo andare e stare nei luoghi di vita della gente, spesso scandalizzando per il suo porsi disarmato e amorevole con tutti, nella disposizione di chi desidera imparare prima che insegnare. Lo aveva fatto attraverso lo stare con i suoi preti, quelli con cui aveva scelto di vivere e tutti quelli che molto spesso andava a incontrare e ad ascoltare. Lo aveva fatto attraverso la sua autorevole serietà di studioso e professore universitario, riconosciuta nel mondo laico, pur essendo “uomo di Chiesa”. Probabilmente la finezza e la profondità con cui aveva auscultato gli antichi testi della tradizione cristiana, lo aveva preparato a essere pastore dell’ascolto. È in questa doppia e reciproca fiducia che si comprende la parola chiave della Camminare insieme: conversione. Parola che dice un movimento che conduce al gesto verso l’altro che passa, da anonimo o nemico, a fratello. Parola che esprime il radicamento in Cristo, così caro alla spiritualità di Pellegrino, e rivela l’intenzione ultima della lettera: l’evangelizzazione intesa come annuncio della buona notizia che è Gesù a ogni uomo e a ogni donna nel suo luogo di vita. Le parole chiave — povertà, libertà, fraternità — tracciano un percorso, indicando lo stile a cui è invitata la comunità cristiana. In essa ognuno, non isolando o perdendo nessuno di questi tre aspetti, scriverà nel luogo del suo vivere storie buone per un mondo vivibile.

La lettera fu innanzitutto un programma che, raccogliendo un percorso ricco e promettente, rilanciava in avanti e nel nuovo la Chiesa torinese diventando un frutto buono del concilio. Un nuovo che certamente, se entusiasmava molti, faceva altrettanta paura ad altri, un nuovo che diede inizio e animò processi e segnò una generazione di cristiani e di cittadini. Forse rileggere la Camminare insieme, ma soprattutto ripercorrere la sua genesi e il suo sviluppo, potrebbe esserci molto utile in questo inizio titubante, forse anche un po’ traballante, di cammino sinodale. Nel gesto coraggioso di Papa Francesco non è difficile ritrovare lo stile umile e profetico, entusiasmante e scomodo, che fu quello del cardinale Pellegrino per la sua Chiesa di Torino.

di Claudio Margaria