Hic sunt leones

L’Africa, un continente dove il futuro è una promessa

FILE PHOTO: A health worker administers a vaccine during the launch of the South African leg of a ...
10 dicembre 2021

Molto inchiostro è stato versato in questi anni sulle vicende africane, ma non v’è dubbio che tra le tante pubblicazioni che hanno reso incandescente il dibattito spicca il libro della saggista Axelle Kabou dal titolo più che emblematico: Et si l’Afrique refusait le developmentpement (“E se l’Africa nega lo sviluppo?”) uscito nel 1991 per i tipi dell’editrice francese L’Harmattan. La tesi della Kabou — nata in Camerun, di nazionalità francese e senegalese — è molto chiara e diretta: non sarebbero stati gli antichi colonizzatori e il sistema politico-economico internazionale a mettere in ginocchio l’Africa, ma i leader africani che hanno sempre rovesciato le responsabilità della deriva continentale sul Fondo monetario internazionale (Fmi), sulla Banca mondiale (Bm) o sulle spalle di qualche altra istituzione internazionale.

Ma il ragionamento della Kabou, esperta in politiche dello sviluppo, è a tutto campo ed entra fortemente in polemica nei confronti dei terzomondismi e i sostenitori ad oltranza della mentalità tradizionale africana. «L’Africa è sottosviluppata e stagnante — scrive la studiosa — perché rifiuta con tutte le sue forze lo sviluppo. L’Africa non muore: si suicida in una sorta di ebbrezza culturale apportatrice solo di gratificazioni morali. Le iniezioni massicce di capitali non possono farci niente. Occorrerebbe prima di tutto disintossicare le mentalità, rimettere gli orologi a posto e soprattutto porre gli individui di fronte alle loro ineluttabili responsabilità».

Il libro di Kabou, a parte un linguaggio a volte eccessivamente duro, ha certamente il merito d’esprimere un’autocritica che mira ad abbattere le presunzioni paternalistiche di chi vorrebbe questo continente sempre dipendente dalla beneficenza altrui. Peraltro, oggi vari intellettuali africani come Roger Tagri, George Ayittey, Andrew Mwenda, James Shikwati e Chika Onyeani concordano, almeno in parte, con la sua analisi. Indubbiamente, l’Africa non può piangersi addosso e l’avvertimento di «rimboccarsi le maniche», lanciato dalla saggista franco-senegalese ha un fondo di verità. Non pochi leader africani, in questi anni, hanno palesemente fallito nel promuovere l’agognato cambiamento attraverso un’incentivazione, ad esempio, della partecipazione popolare. Insomma, non è lecito recriminare contro la Kabou perché ha trovato il coraggio di criticare la propria gente. Lei è un’africana ed è libera di farlo, ma noi occidentali dovremmo essere molto più cauti e non solo per i nostri trascorsi coloniali. Anche perché lo scenario africano è estremamente complesso e merita un’attenta disanima con l’intento dichiarato di contrastare una qualsivoglia visione oscurantista.

È bene rammentare, a scanso di equivoci, che questo continente, tre volte l’Europa, è quello in cui l’homo sapiens mosse i suoi primi passi per poi migrare, circa 60.000 anni fa, in tutto il pianeta; motivo per cui viene considerato dagli studiosi la «culla dell’umanità». Poliedrico contenitore di saperi millenari, luoghi di passioni, ricchezza culturale e artistica, galassia di etnie fatte di volti con le loro storie da scoprire, l’Africa merita sempre e comunque rispetto. Infatti se da una parte l’emergere, il diffondersi e il perdurare di numerosi conflitti armati a livello continentale sono strettamente legati alle debolezze nei processi di state-building e nation-building; dall’altra sono innegabili le interferenze straniere che condizionano fortemente la cosiddetta coerenza sociale e i meccanismi per garantire uno sviluppo economico sostenibile. Basti riflettere sullo sfruttamento delle commodity da parte di aziende straniere, per non parlare degli effetti della speculazione finanziaria internazionale che penalizza i mercati nazionali. In particolare, l’attuale pandemia covid-19, non solo ha fatto entrare in sofferenza il sistema sanitario continentale, ma ha anche penalizzato le economie nazionali.

Le difficoltà dei governi locali a garantire un’adeguata copertura vaccinale ai propri cittadini sono emblematiche di un deficit di cooperazione da parte dei principali attori internazionali. Ad esempio, anche nel momento in cui ci si è resi conto che l’Africa rappresenta il vivaio per ogni genere di varianti, i tradizionali paesi donatori non sono riusciti a garantire (almeno finora) una sospensione dei diritti di proprietà intellettuale sui vaccini anti-coronavirus.

Sotto il profilo strettamente politico, è poi comunque ingiusto misconoscere l’adozione in non pochi paesi di riforme democratiche che hanno favorito l’introduzione di meccanismi elettorali e delegittimato il tradizionale ricorso ai tanto biasimati colpi di stato. Se questa fenomenologia a volte è ancora presente, essa è in gran parte riconducibile all’azione di poteri oligarchici autoctoni che spesso vengono foraggiati celatamente da investitori esteri. La tanto riprovata corruzione è in fondo espressione eloquente di questi processi che evidenziano una stretta sinergia tra i «corruttori» e i «corrotti», secondo il tradizionale modello dei mercati incentrato sul rapporto «domanda-offerta» rispetto all’acquisto e alla vendita di beni o servizi. Ecco che allora se il computo delle cosiddette ruberie integrasse non solo la «domanda», ma anche la dimensione dell’«offerta», la graduatoria dei paesi con un alto indice di corruzione vedrebbe in testa quelli benestanti.

In ogni caso, le tecnologie e i capitali investiti in Africa non appartengono alle popolazione locali, deboli socialmente e soprattutto incapaci d’influenzare le decisioni delle imprese multinazionali impegnate nello sfruttamento delle immense risorse africane.

Se a tutto ciò aggiungiamo la gestione iniqua dei contratti di lavoro e dell’ambiente, l’inflazione crescente, i redditi incerti, la mancanza di competenze, nonché l’esclusione sociale dei ceti meno abbienti da ogni forma di partecipazione, non c’è da meravigliarsi se il continente è attraversato da turbolenze socio-politico-economiche.

La macroregione del Sahel, che rappresenta oggi uno dei crocevia dell’instabilità africana, vede significativamente rivendicazioni di natura pseudo-religiosa, sostenute da gruppi armati islamisti, intrecciarsi a istanze socio-economiche, legate alla marginalizzazione di aree geografiche fortemente depresse e all’irredentismo nei confronti delle geostrategie del cosiddetto neo colonialismo. Nel Corno d’Africa le dinamiche di conflittualità geopolitica regionale sono molteplici e vanno dalla pretesa dei jihadisti al-Shabaab di governare la Somalia, alla crisi etiopica che contrappone le forze del Tigray a quelle lealiste; per non parlare delle crisi politico-istituzionali che affliggono, con modalità e declinazioni diverse tra loro, sia il Nord che il Sud Sudan.

La lista dei focolai, include anche altri settori geografici quali la Nigeria Settentrionale, il vasto bacino del lago Ciad, la Repubblica Centrafricana e il Nord del Mozambico. Detto questo, nonostante i rischi di instabilità e di violenza relativamente elevati che caratterizzano l’Africa in relazione alle altre aree del globo, nel decennio scorso il continente ha compiuto importanti passi verso una maggiore stabilità.

A parte la crescita del prodotto interno lordo continentale, che purtroppo è stata bruscamente arrestata dalla pandemia covid-19 ancora in corso, si registra in molti Paesi un’irreversibile e significativa maturazione del diritto di cittadinanza, attraverso l’impegno condiviso da parte di associazioni, gruppi e movimenti, espressioni qualificate della società civile. Si tratta di realtà che in molti casi sono nate e cresciute all’interno di comunità ecclesiali che da decenni sono in prima fila nel promuovere lo sviluppo sostenibile e la giustizia sociale.

La mobilità umana dalla sponda africana del Mediterraneo che sta interessando l’Europa e tanto preoccupa le cancellerie del Vecchio Continente, in riferimento ai temi dell’emigrazione clandestina, del terrorismo o dei i traffici illeciti, è la cartina al tornasole delle contraddizioni della globalizzazione, un fenomeno che non hanno certo inventato i popoli afro.

Per dirla con le parole dello scrittore nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986: «Tutto è negoziabile anche l’unità nazionale, ma non il diritto delle persone a determinare il proprio futuro». Un futuro che per i credenti è una promessa di liberazione da ogni genere di schiavitù.

di Giulio Albanese