Lo splendore interiore della Chiesa al centro della prima predica d’Avvento

Come le vetrate
di una cattedrale

 Come le vetrate di una cattedrale  QUO-276
03 dicembre 2021

«Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò suo figlio». È tratto dalla Lettera ai Galati (4, 4) il tema generale delle meditazioni che il predicatore della Casa Pontificia, il cardinale cappuccino Raniero Cantalamessa, tiene oggi, 3 dicembre, e nei venerdì delle prossime due settimane di Avvento nell’Aula Paolo vi, per consentire il rispetto delle norme di distanziamento tra i partecipanti. Nel secondo venerdì, il 10 dicembre, e nel  terzo, il 17 dicembre, è prevista la presenza di Papa Francesco, in questi giorni a Cipro e in Grecia per il suo 35° viaggio internazionale.  Alle prediche sono invitati i cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, i prelati della Famiglia pontificia, i dipendenti della Curia romana e del vicariato di Roma, i superiori generali o i procuratori degli ordini religiosi facenti parte della Cappella pontificia.

Mettere in luce «lo splendore interiore della Chiesa e della vita cristiana». È questo l’obiettivo delle riflessioni che il cardinale Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, propone quest’anno per il periodo di Avvento. A spiegarlo è stato lo stesso porporato, che stamane, venerdì 3 dicembre, ha tenuto la prima predica, nell’Aula Paolo vi . Il tema scelto per la meditazione è stato ispirato al brano paolino tratto dalla Lettera ai Galati (4, 4-7): «Dio mandò suo Figlio perché ricevessimo l’adozione a figli».

Il frate cappuccino ha posto all’attenzione degli ascoltatori un pericolo sempre presente, quello cioè di vivere come se la Chiesa fosse soltanto «scandali, controversie, scontro di personalità, pettegolezzi o al massimo qualche benemerenza nel campo sociale»: come se fosse, in sostanza, «cosa di uomini come tutto il resto nel corso della storia».

«Quello che mi propongo — ha invece sottolineato — è di mettere in luce lo splendore interiore della Chiesa e della vita cristiana». Una scelta che non nasce dalla volontà di «chiudere gli occhi sulla realtà dei fatti» o di «sottrarci alle nostre responsabilità», ma dal desiderio di affrontarle «nella prospettiva giusta» senza «lasciarci schiacciare da esse». Infatti, ha spiegato, non «possiamo chiedere ai giornalisti e ai media di tenere conto di come la Chiesa interpreta se stessa»; ma la cosa più grave sarebbe se anche gli «uomini di Chiesa e ministri del Vangelo» finissero per perdere di vista «il mistero» che la abita e si rassegnassero «a giocare sempre fuori casa, in trasferta e sulla difensiva».

Il predicatore ha invitato a guardare la Chiesa dal punto di vista più corretto, paragonandola alle «vetrate di una cattedrale». Se si guardano dall’esterno, non si vedono che pezzi di vetro scuro tenuti insieme da strisce di piombo altrettanto scure. «Ma se si entra dentro e si guardano quelle stesse vetrate contro luce — ha esclamato — che splendore di colori, di storie e di significati davanti ai nostri occhi!» Ecco allora la determinazione a guardare la Chiesa «da dentro, nel senso più forte della parola, alla luce del mistero di cui è portatrice».

Il cardinale ha poi fatto riferimento alla paternità di Dio, che «è al cuore stesso della predicazione di Gesú». Anche nell’Antico Testamento Dio «è visto come padre»; ma la novità è che ora non è più soltanto «padre del suo popolo Israele» ma «di ogni essere umano, giusto o peccatore che sia: in senso dunque individuale e personale». Egli si preoccupa di «ognuno come fosse l’unico; di ognuno conosce i bisogni, i pensieri e conta persino i capelli del capo».

Cantalamessa ha quindi messo in guardia dalla tentazione di seguire ancora l’errore della teologia liberale, del xix e del xx secolo, soprattutto del suo più illustre rappresentate, Adolf von Harnack: errore consistito nel «fare di questa paternità l’essenza del Vangelo, prescindendo dalla divinità di Cristo e dal mistero pasquale». Un altro sbaglio, provocato dall’eresia di Marcione nel ii secolo e «mai del tutto superato», è quello di vedere nel Dio dell’Antico Testamento un «Dio giusto, santo, potente e tonante, e nel Dio di Gesú Cristo, un Dio papà tenero, affabile e misericordioso».

La novità di Cristo non consiste in questo, ha rimarcato il porporato. Consiste piuttosto nel fatto che «Dio, rimanendo quello che era nell’Antico Testamento e cioè tre volte santo, giusto e onnipotente, viene ora dato a noi come papà!». È questa l’immagine «fissata da Gesù all’inizio del Padre Nostro e che contiene in nuce tutto il resto». Si prega, infatti, dicendo «Padre nostro che sei nei cieli», cioè che sei «altissimo, trascendente, che disti da noi quanto il cielo dalla terra»; ma si dice «Padre nostro», anzi nell’originale «Abba!», qualcosa di simile al nostro papà, padre mio.

È anche l’immagine di Dio che la Chiesa ha posto all’inizio del suo credo. «Credo in Dio, Padre onnipotente»: padre, ma «onnipotente; onnipotente, ma padre». È questo, del resto, ciò di cui «ogni figlio ha bisogno: di avere un padre che si china su di lui, che sia tenero, con cui può giocare, ma che sia, al tempo stesso, forte e sicuro per proteggerlo, infondergli coraggio e libertà».

Il cardinale ha anche attirato l’attenzione su un pericolo «mortale», cioè dare per «scontate le cose più sublimi della nostra fede, compresa quella di essere nientemeno che figli di Dio, del creatore dell’universo, dell’onnipotente, dell’eterno, del datore della vita». Occorre «passare dalla fede allo stupore», addirittura, «dalla fede all’incredulità». Una incredulità «tutta speciale: quella di chi crede, senza potersi capacitare di quello che crede», tanto gli sembra cosa enorme, «incredibile».

Essere figli di Dio comporta infatti «una conseguenza che si osa appena formulare, tanto essa è da capogiro». Grazie ad essa, «il divario ontologico che separa Dio dall’uomo è minore del divario ontologico che separa l’uomo dal resto del creato», perché «per grazia noi diventiamo “partecipi della natura divina” (2 Pt 1, 4)».