Il richiamo dei padri della Chiesa Clemente Alessandrino ed Epifanio di Salamina

Come usare la ricchezza
e la fede

 Come usare la ricchezza e la fede  QUO-274
01 dicembre 2021

Se il teologo e filosofo greco  invitava  a non accumulare beni ma buone opere il vescovo cipriota  si prodigò contro le eresie


I ricchi si salvano? A questa domanda il più greco dei padri della Chiesa, Clemente Alessandrino (150-215), dedica il celebre scritto intitolato Quis dives salvetur? («Quale ricco si salverà?»). «Coloro che offrono in dono ai ricchi discorsi encomiastici dovrebbero, a mio avviso, essere considerati non soltanto adulatori e ignobili, ma anche empi e perfidi. Empi perché trascurando di lodare e glorificare Dio, il solo perfetto e buono, applicano questa prerogativa divina ad uomini che voltolano in una vita corrotta e melmosa; perfidi, perché pur essendo la ricchezza stessa capace di per sé di far gonfiare d’orgoglio le anime di coloro che la possiedono, costoro sconvolgono le menti dei ricchi eccitandoli con i piaceri delle lodi smisurate e mettendoli in condizione di disprezzare tutti i beni eccetto la ricchezza, per la quale vengono ammirati» (Quis dives salvetur?, 1, 2).

L’ammonimento dell’Alessandrino in realtà è una difesa, un mettere amorevolmente in guardia i ricchi perché possano scorgere nella propria vita la giusta scala di valori a partire dalla salvezza, dalla verità e dalla vita eterna. Tito Flavio Clemente, nato in Atene da famiglia pagana, si converte al cristianesimo da adulto probabilmente grazie anche alla frequentazione del filosofo Panteno, l’“ape sicula”, come lo stesso Clemente definisce il maestro, che incontra ad Alessandria d’Egitto, dove in seguito lo stesso Clemente condurrà la scuola alessandrina, il Didaskaleion. Lo spunto di partenza dello scritto di Clemente è l’episodio dell’incontro del giovane ricco con Gesù che, (Matteo, 19, 16-30) a metà della conversazione, introducendo l’elemento della perfezione (teleios), risponde: «Se vuoi essere perfetto, vaʼ, vendi tutto quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Matteo, 19,21-22). Ora udendo la tal risposta, il giovane che possedeva molte ricchezze, si accomiatò triste e sconsolato. E pertanto scrive Clemente: «Che cosa significa questo? Non come alcuni colgono con superficialità, che comandi di rigettare il patrimonio che si ha e di allontanarsi dalle ricchezze, ma di separare l’anima dai pensieri relativi alle ricchezze, dall’inclinazione ad esse, dal desiderio eccessivo, dalla brama morbosa di esse, dalle preoccupazioni, dalle spine del vivere, che soffocano il seme della vita». Tuttavia la disamina del testo dell’Alessandrino si rivela anche oggi di estrema attualità sia tra gli operatori di Wall Street sia tra i circoli del capitalismo emergente. Ma non è certamente da considerare un testo antesignano del marxismo o dell’abolizione della proprietà privata. L’intenzione, lo scopo di Clemente — ed ecco l’odierna attualità argomentativa dell’Alessandrino — è quella di insegnare ai ricchi l’uso della ricchezza e cioè che «non devono trascurare la loro salvezza come se fossero già condannati, né devono buttare a mare la ricchezza né condannarla come insidiosa e ostile alla vita, ma devono imparare in quale modo e come usare la ricchezza e procurarsi la vita. Questo infatti perché «uno non è assolutamente perduto perché è ricco in preda alla paura, né è assolutamente salvato per la certezza e la fede che sarà salvato» (27, 1-2). La ricchezza è uno strumento: «Se sai usarla bene, ti procura la giustizia; se la usi male, si rivela l’ingiustizia che è in te. Per natura sua è fatta per servire, non per comandare. Le ricchezze, per sé stesse, non sono né buone né cattive, non possiedono alcuna responsabilità e perciò nessuna colpa», dopodiché spetta «alla volontà umana, alla sua capacità di scelta, stabilire in che modo servirsi delle ricchezze possedute. È assurdo perciò rigettare le ricchezze invece che le passioni dell’animo. In questo caso, diventa impossibile l’uso migliore dei beni esterni insieme con il conseguimento della perfezione interiore». (Omelia, C’è salvezza per il ricco?)

E se Clemente Alessandrino è una figura imprescindibile della cristianità greca, non meno rilevante anche se meno noto dell’Alessandrino è il cipriota Epifanio di Salamina (315 circa - 403).

Tra i maggiori esperti di eresiologia, dell’era cristiana, la sua opera principale è il Panarion, un trattato contro le eresie, ovvero una cassetta medica di pronto soccorso contro bestie, morsi di bestie e serpenti velenosi, il modo di Epifanio di paragonare gli eretici e le loro dottrine ad animali e veleni pericolosi.

Ottanta eresie compendiate e confutate, su invito di due abati di Celesiria. Intorno al 366/367 è chiamato al soglio episcopale della città di Costanza, l’antica Salamina, l’attuale Famagosta, nell’isola di Cipro. Tra gli scritti, oltre quelli eresiologici, del vescovo di Salamina a difesa della fede cattolica e della Chiesa apostolica, il vivace e attuale Compendio della fede.

L’esigenza “apologetica” di Epifanio nasce dalla necessità di arginare e dividere, nel pullulare di ingannevoli gruppi ereticali, la vera dalla falsa fede. «Abbiamo preso in considerazione le sconsiderate dottrine dalle molte sembianze, dalle molte astuzie e dalle molte diramazioni, sorte dalle infide intenzioni dei nemici. A stento abbiamo demolito la ridda dei loro argomenti e abbiamo superato le loro perversioni per accostarci alle tranquille acque plaghe della verità». Ma dopo aver sperimentato «ogni mare tempestoso e sopportato ogni uragano, acque spumeggianti e onde rigonfie, dopo aver visto, per così dire, burrasche e turbini, scogli non da poco e luoghi inospitali persino per le belve — situazioni che abbiamo provato nei nostri discorsi — ora intravediamo il porto tranquillo nel quale ci affrettiamo a sbarcare, onorando ancora il Signore con la preghiera» (Compendio della fede, 1-3).

San Girolamo (347-420) grande estimatore di Epifanio nel suo De viris illustribus dedica al cipriota la scheda numero cxiv : «Epifanio, vescovo di Salamina di Cipro, scrisse dei libri contro tutte le eresie e numerose altre opere che sono molto lette dai dotti per il contenuto e anche dai meno provveduti per la forma. Vive tuttora e, giunto ormai all’estrema vecchiaia, sta pubblicando diverse opere». Fu definito dallo stesso Girolamo, “pentaglotta” perché esperto in cinque lingue: ebraico, siriaco, egiziano, greco e latino.

di Roberto Cutaia