Formare la comunità

 Formare la comunità  QUO-265
20 novembre 2021

Vorrei inserirmi nel dibattito sollevato dalla proposta dell’arcivescovo Erio Castellucci sulla necessità di cambiare la formazione presbiterale dando voce — prima di proporre il mio punto di vista di donna e consacrata — a coloro che sono destinatari di tale formazione, ovvero i presbiteri. A tal fine, mi sono rivolta a sacerdoti ordinati negli ultimi dieci-quindici anni che hanno un’età che va tra i 40 e i 50 anni. Ciò che è emerso genericamente da questi ascolti è una certa amarezza per non aver sempre trovato nell’ambiente del seminario un percorso umanizzante. Si evidenzia un’attenzione esclusiva alla formazione intellettuale, a discapito di quella spirituale e integrale della persona. Gli stessi percorsi di accompagnamento psicologico proposti sembrano più avere uno scopo difensivo e preventivo, per scongiurare l’ammissione agli ordini di soggetti non “adeguati”, che non quello di favorire cammini di crescita personale. Molto interessante che i sacerdoti sentiti abbiano attribuito valore al cammino comunitario e alle relazioni che da questo sono nate tra pari; come anche l’assoluta fermezza nell’affermare che la formazione del seminario non prepara all’esercizio del ministero sacro, né tantomeno può dare rassicurazioni rispetto a quelle che sono le sfide della vita ordinata.

Incontrare questi volti e le loro esperienze mi ha certamente convinta ancor di più sulla necessità di un ripensamento radicale della formazione presbiterale e sulla validità e intelligenza della proposta di monsignor Castellucci; ma, non possa negare, che restano aperte delle domande che forse potrebbero trovare risposta in altrettanta attenzione alla formazione permanente dei presbiteri e, ancor di più, in un ripensamento della responsabilità all’interno della comunità ecclesiale. In altri termini, non è, a mio avviso, delegabile alla selezione e formazione iniziale il compito di assicurare l’adeguatezza della persona nel momento in cui viene a esercitare il ministero ordinato. In primo luogo perché si tratta, appunto, di persone e non di prodotti da immettere nel mercato, con cammini personali e comunitari che richiedono tempo, maturazione umana e spirituale, libertà di coscienza, esperienza nel ministero stesso. Si potrebbe dire con una battuta che pastori non si nasce e non si diventa in sei anni di seminario, ma nel corso di una vita intera vissuta col popolo di Dio, fino a odorare del gregge del Signore, per parafrasare Papa Francesco. Ma anche perché il rischio è quello di continuare a proporre ai candidati un modello di presbitero che non trova più rispondenza nella vita ecclesiale e sociale di oggi, e forse non risponde neanche ai segni dei tempi indicati dallo Spirito santo.

A questo proposito ho trovato denso di stimoli l’intervento di don Manuel Belli che, a commento della proposta dell’arcivescovo Erio Castellucci, poneva il problema della crisi di identità del prete, evocando l’immagine del “prete padre”. E su questa vorrei soffermarmi. In verità, tale immagine non è solo evocativa di una condizione spirituale e umana che si richiede al presbitero, ma l’idealtipo che viene proposto dai documenti magisteriali che si occupano della formazione presbiterale — penso per esempio al Presbyterorum ordinis, secondo cui i sacerdoti «in virtù del sacramento dell’ordine svolgono la funzione eccelsa e insopprimibile di padre e di maestro nel popolo di Dio e per il popolo di Dio» (9); e al Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, della Congregazione per il clero, che al numero 30 dice che «il presbitero diventa il pontefice, colui che unisce l’uomo a Dio, facendosi fratello degli uomini nell’atto stesso con cui vuole essere loro pastore, padre e maestro» — e che definiscono il ruolo del presbitero ricorrendo proprio alla categoria della paternità. Lo stesso Codice di diritto canonico, nell’individuare funzioni e compiti del parroco, pur non ricorrendo all’espressione padre, ne delinea la fisionomia, chiedendo, al canone 529, che il parroco «visiti le famiglie, partecipando alle sollecitudini dei fedeli, soprattutto alle loro angosce e ai loro lutti, confortandoli nel Signore e, se hanno mancato in qualche cosa, correggendoli con prudenza; assista con traboccante carità gli ammalati, soprattutto quelli vicini alla morte, nutrendoli con sollecitudine dei sacramenti e raccomandandone l’anima a Dio; con speciale diligenza sia vicino ai poveri e agli ammalati, agli afflitti, a coloro che sono soli, agli esuli e a tutti coloro che attraversano particolari difficoltà; si impegni anche perché gli sposi e i genitori siano sostenuti nell’adempimento dei loro doveri e favorisca l’incremento della vita cristiana nella famiglia».

Quello del pater familias, in effetti, è un modello ideale e standardizzato di cura, presente in tutti i codici di stampo napoleonico che ha lo scopo di introdurre negli ordinamenti giuridici delle clausole generali, la cui funzione è quella di adeguare e rendere flessibili gli stessi ordinamenti alle evoluzioni storiche, sociali, politiche ed economiche. Non si tratta, dunque, di modelli concreti, potremmo dire evangelicamente incarnati, ma di modelli ideali fissati per interpretare in modo evolutivo le norme. E questa funzione dovrebbe poter assolvere anche nel diritto universale della Chiesa in materia di formazione presbiterale, senza attribuirgli un valore formativo e performativo.

Faccio queste considerazioni alla luce di due dati: il primo è che oggi parlare di padri significa riconoscere una crisi e, allo stesso tempo, un’opportunità per ripensare alla figura del padre. In tal senso ci vengono in soccorso le scienze antropologiche e sociologiche, che ci spiegano come la paternità non sia un dato naturale, almeno nel mondo dei mammiferi, così come, invece, lo è la maternità. È la società che ha creato i padri, normandone un’identità che oggi si scopre in difficoltà perché venute meno proprie quelle granitiche certezze che disegnavano la fisionomia di colui che esercitava la patria potestà. Riprendendo la battuta già proposta, si potrebbe dire che padri non solo non si nasce, ma neanche lo si diventa con la nascita di un figlio, figuriamoci quando la paternità ha i tratti di cura spirituale come nel caso del celibato presbiterale.

Il secondo dato, in realtà strettamente legato al primo, è che la paternità si vive e si costruisce nella relazione col figlio e con la madre di questo figlio, elementi che in concreto mancano nella scelta celibataria. E che se riproposti tout court come ideale per il presbitero rischiano, da un lato, di trattenere le comunità che egli guida in una figliolanza che non permette una crescita nel senso di corresponsabilità e una maturazione adulta della fede; dall’altro, di condannare il presbitero stesso alla solitudine del numero uno, poiché privato della relazione con un partner che lo aiuti nel percorso di maturazione di una coscienza personale di padre.

Cosa voglio dire? Pensare che i seminari possano preparare i futuri presbiteri a essere parroci-pastori-padri rischia, oggi, di rimanere vuoto di significato. Cosa vuol dire essere padre oggi? E, soprattutto, per quanto riguarda il ruolo del presbitero nella Chiesa cattolica e nella società, possiamo ancora rimanere legati al modello del “parroco padre” di cinquant’anni fa, quando anche la parrocchia stessa è un’istituzione in crisi, poiché ha perso il ruolo sociale di luogo di appartenenza e aggregazione dei fedeli? Non si potrebbe, invece, cogliere in quella che consideriamo una crisi formativa, umana, evolutiva, del prete l’opportunità per affrancarci da un modello autoritativo e posato sulla figura di un uomo solo, per disegnare un modello di leadership circolare che riconosca il carisma di cui sono portatori i laici?

Del resto, i sacerdoti di oggi sono “figli” di questo modello di “parroco padre” e, ascoltando loro stessi, mi pare si possa dire che, nonostante alcuni esempi luminosi che la Chiesa ci propone, nella generalità dei casi, anche lì, qualcosa non ha funzionato. Ma forse, non è nemmeno corretto dire questo. È più profondo e spirituale leggere in questi cambiamenti un cammino indicato dallo Spirito, che ci chiede di non mandare avanti alla guida della comunità uomini soli, con le loro umane fragilità, a cui delegare ogni responsabilità e su cui caricare ogni aspettativa, ma di fare esperienza di un cammino condiviso, in cui ciascun fedele, nella diversità dei carismi di cui è portatore, maturi un adulto senso di fede, testimonianza e missione. Un modello comunitario di questo tipo certamente richiederebbe un’attenzione altrettanto impegnata nella formazione del laicato, nella valorizzazione delle competenze di cui è portatore, e, anche, in un adeguato riconoscimento economico dell’impegno di coloro che si rendono corresponsabili nella gestione della comunità ecclesiale. In effetti, non so dire se siamo realmente pronti a questo; una speranza viene dal cammino sinodale a cui siamo chiamati, se sapremo viverlo da adulti. Quello che mi appare però sempre più evidente è che i modelli di leadership solitari sono sempre più in crisi, e che i presbiteri di oggi reclamano e hanno il diritto di non rispondere a un modello costruito a tavolino, per far emergere la propria umanità, ferita, debole, in crisi, l’unica grazie alla quale possono farsi compagni di cammino di ogni donna e uomo, e con la quale darci una testimonianza di fede e di vita credibile.

di Maria Giovanna Titone