La scusa dello sviluppo

16 novembre 2021

Negli scorsi mesi sulle pagine di questo quotidiano abbiamo raccontato la storia di un progetto estrattivo nel nord del Portogallo, nella regione di Barros, dove si stava programmando l’apertura di una miniera di litio, minerale con una domanda altissima per il suo utilizzo per le batterie che serviranno ad alimentare le auto elettriche in futuro. La domanda che ci eravamo era se si può preservare l’ambiente dal cambiamento climatico modificando l’ambiente stesso. Dopo alcuni mesi, nei quali i grandi del pianeta hanno discusso come combattere il cambiamento climatico, la risposta che possiamo nuovamente darci è “no”: mantenere l’ambiente intatto è uno dei pilastri per la lotta ai cambiamenti climatici. Il problema è che, nonostante la ben diffusa consapevolezza che l’ambiente sia uno dei fattori da preservare un quest’ottica, nel mondo ancora si pianificano grandi progetti che mettono a repentaglio in tutti i continenti ecosistemi e popolazioni locali, minando le misure contro il cambiamento climatico. Se la giustificazione è lo sviluppo economico delle popolazioni, spesso le popolazioni sono le prime a soffrire perle conseguenze questi progetti.

Prendiamo per esempio il caso della East Africa Crude Oil Pipeline (Eacop), un oleodotto che dovrebbe collegare le rive del Lago Alberto, diviso tra Uganda e Repubblica Democratica del Congo, con l’Oceano Indiano per il trasporto del petrolio estratto dai siti di Tilenga e Kingfisher. Il progetto, in cui sono coinvolte compagnie straniere, è appoggiato dai governi dell’Africa orientale in cui è previsto il passaggio del condotto, Uganda e Tanzania, ma molte sono le proteste per i danni che potrebbero esserci lungo il percorso.

La minaccia riguarda gli effetti sul bacino del Lago Vittoria e le paludi di Ramsar nel parco nazionale di Murchison Falls, entrambe costeggiate dal percorso dell’oleodotto ed entrambe casa di specie in via di estinzione. Ma il problema più grande riguarda lo spostamento di interi villaggi e l’esproprio di terre coltivate. La questione è particolarmente sentita in Uganda dove, oltre al trasferimento dei villaggi, molti terreni sono stati o verranno espropriati. Per coloro che hanno perso i terreni le indennizzazioni sono state irrisorie o non sono mai arrivate. Anche in Tanzania molte famiglie saranno costrette a trasferirsi. In totale, almeno seimila persone dovranno lasciare le loro case. In molti casi non si tratta neanche del primo trasferimento obbligatorio: una parte degli abitanti del villaggio di Kakumiro, nell’ovest dell’Uganda, fino al 1992 vivevano in quella che ora è la riserva forestale di Mpokya. Se il progetto dell’Eacop fosse portato a termine, questa volta sarebbe tutto il villaggio a muoversi.

Alla Cop26 di Glasgow la deforestazione è stato uno degli argomenti più discussi. L’importanza è tale che il suo stop è stato fissato nel 2030 ben prima dello stop alle emissioni di gas serra. Il problema è che l’estensione delle foreste pluviali lungo la linea dell’Equatore si riduce giorno dopo giorno con la scusa dello sviluppo e delle risorse per la popolazione, come nel caso delle foreste in Indonesia. Da anni ormai il governo locale concede lotti da migliaia di ettari per la creazione di piantagioni e coltivazioni o per infrastrutture legate allo sviluppo di progetti estrattivi. Il problema è particolarmente sentito nella regione del Kalimantan meridionale, sull’isola del Borneo.

Lo scorso febbraio la regione è stata devastata da una forte alluvione che ha causato almeno ventiquattro morti. La polizia ha reso noto che le ditte che in questi anni hanno ottenuto le concessioni e iniziato i lavori di deforestazione potrebbero essere citate in giudizio per gli effetti sulla foresta causati dai loro lavori. Ma lo scontro non è con le singole compagnie, bensì con il governo di Jakarta. La linea dell’esecutivo è di concedere lotti perché il Paese, il quarto più popoloso al mondo, ha bisogno di terreni coltivabili e terreni da sfruttare. Anche in questo caso la deforestazione legale mette in pericolo la fauna. In particolare, la specie più in pericolo nel Borneo sono gli orangotanghi, il cui territorio è sempre più ridotto a causa della creazione di nuove piantagioni, soprattutto di olio di palma.

Dall’altra parte dell’Asia, le Repubbliche ex sovietiche sono la prova di cosa significhi inquinare il suolo, avvelenare la popolazione e modificare l’ambiente in maniera irrimediabile. Oltre al ben noto caso del Lago d’Aral, un lago tanto vasto da poter essere definito quasi un mare, prosciugato dalla necessità di portare acqua alle piantagioni di cotone lungo il fiume Amu Darya, ci sono altri casi meno noti in cui come gli effetti dello sfruttamento delle miniere nel centro del Kazakistan, intorno alla città di Karaganda, o le speculazioni immobiliari nella capitale Nur-Sultan.

di Cosimo Graziani