L’amicizia con Orazio Costa, nel ricordo di Domenico Galasso

«Quando mettemmo in scena la saga di papa Fieschi»

 «Quando mettemmo in scena  la saga di papa Fieschi»  QUO-255
09 novembre 2021

Quanta vita freme, nascosta tra le righe di una vecchia recensione, e torna alla memoria in tutto il suo frenetico farsi, e nel respiro di chi rilegge si rifà presente, si ripresenta, si rappresenta. Anche a distanza di quasi trent’anni, ormai (ventisette, per essere precisi) il ricordo potente degli sguardi, delle intese, delle voci, generato dalla corsa degli occhi sulle parole del vecchio quotidiano alimenta quel sovrappiù di vita che lega il passato e il presente in quel nodo di senso che siamo. Tra le mani ho la copia della recensione che il generoso Marco Raffa scrisse dopo il debutto di Ultima estate dei fieschi, nell’estate del 1994.

E, anche, sfioro con le dita la piastra sottile di pietra di lavagna che Elena mi donò insieme con la prima copia dell’altro testo teatrale — allora “non visto ancora da nessuno”, Le spade e le ferite. Più nitidamente tornano i visi, le voci, le parole, le situazioni.

Cominciamo dal principio: la prima volta che sentii parlare di Elena fu nell’aprile del 1993; avevo accompagnato a Firenze, da Roma, il mio maestro Orazio Costa. Un rientro che suggellava la definitiva chiusura del Progetto Amleto e del nostro quarto anno di perfezionamento presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, dopo quasi due anni di intensissimo lavoro, durante i quali il maestro aveva saputo farci sognare un Amleto che non avremmo mai realizzato. Un viaggio, quel Roma - Firenze, che aveva il sapore amaro della ritirata. Mi chiese lui di accompagnarlo. Era molto stanco e provato. Lo lasciai nella sua casa, ancora in via Ginori. Eccomi, poco dopo, a casa di Alessandra Niccolini, assistente e collaboratrice del maestro e maestra di Danza Mimica, cara amica, che volle, ad un certo punto, farmi vedere una registrazione, su vhs, di due ragazze, attrici o allieve attrici, per apprezzarne la bravura.

Ma che cosa stanno dicendo?

— È un testo su Giovanna d’Arco. Vero che sono brave?

— Sì, ma che cos’è? Chi l’ha scritto?

— Guarda, guarda che brave in questo passaggio.

— Sì, ma che cosa stanno recitando? Chi ha scritto queste parole?

— Il dramma è La grande e la piccola morte. L’autrice si chiama Elena Bono.

— Ce l’hai?

Era fatta. Quel meraviglioso dialogo tra Giovanna e la strega mi aveva catturato.

Come Trappola per topi avrebbe catturato, nell’Amleto — secondo il giusto progetto del principe — la coscienza del re, allo stesso modo quelle parole avevano turbato la mia coscienza, acceso il mio interesse, sollevato il mio spirito, mi avevano scosso nel profondo, insomma. Mi procurai il testo, finalmente, e lo scelsi come materiale per sostenere l’esame di ammissione, qualche mese dopo, per la classe di Regia in Accademia.

Fui, dunque, in Accademia, allievo di Andrea Camilleri nell’anno 1993/1994.

Nel frattempo ero riuscito ad entrare in contatto telefonico con Elena.

L’antivigilia di Natale, finite le lezioni in Accademia, partii per la Liguria, invitato da Elena e Gian, ospite per la prima volta nella loro meravigliosa casa di Chiavari.

Qualche mese dopo eccomi nuovamente in Liguria, tra Chiavari e Lavagna, per un inatteso sviluppo. Avrei avuto l’occasione di lavorare ad un altro testo teatrale di Elena, Ultima estate dei Fieschi, appunto. Accettai la proposta e mi tuffai in una esperienza professionale e umana i cui esiti continuano a manifestarsi ancora oggi e non smettono di stupirmi, per la profondità di alcuni legami e per inattese conseguenze che ancora mi generano meraviglia e gratitudine.

Quel mese di prove e allestimento rimarranno per sempre, indimenticabili, nel cuor del mio cuore, per l’amichevole confidenza, direi familiarità, che venne a crearsi con la quotidiana frequentazione con Elena e il suo inseparabile consorte. Ogni sera, dopo la giornata di prove, ci ritrovavamo, da loro, il più delle volte a cena, e, comunque, a seguire, all’immancabile appuntamento coi sigari, gli insostituibili biondi ammezzati Garibaldi, in quella che loro chiamavano “la nostra piccola Svizzera”, la terrazza che dava sul giardino della casa, con le altissime magnolie e che guardava i monti, confortandoci un poco, quella vista, dalla calura estiva.

In quelle lunghissime, intensissime serate, in cui raccontavo loro delle prove del giorno, Gian mi insegnava la pronunzia di alcuni termini in zenese, come soltanto lui, col suo garbo e con la sua eleganza, avrebbe potuto. Altro viaggio in treno. Qualche giorno prima del debutto ricevo una chiamata da Orazio Costa: avrebbe dovuto ritirare il Premio Flaiano alla carriera, a Pescara.

— Maestro, siamo sotto debutto, ma l’accompagno.

— Grazie, caro! Allora, ci incontreremo a Bologna e da lì proseguiremo insieme.

L’emozione ulteriore di quel viaggio fu generata dalle parole del maestro che, dopo avermi chiesto del lavoro, delle prove, dell’imminente debutto, e dell’ipotesi di venire alla prima, così disse: «Vedi, caro, tu, in fondo, sei un mio dono a Elena. Sì, perché nel corso del tempo abbiamo avuto molte occasioni mancate, e avrei voluto fare di più, per lei. Ora, tu, in qualche modo, puoi col tuo lavoro compensare questa mia mancanza».

Ecco che io, invece, in realtà, ho certamente ricevuto il dono inaspettato della sua amicizia, del suo affetto, addirittura moltiplicati per la familiarità con cui anche Gian mi accolse. L’esito di quella nostra estate non tardò a manifestarsi. Nella primavera successiva, nell’aprile del 1995, fu dato alle stampe il terzo dramma della trilogia fiesca: Le spade e le ferite, dedicato a stampa al sottoscritto e ai Sestieri di Lavagna e al loro priore, che avevano partecipato, nell’estate precedente, allo spettacolo sul Sagrato di San Salvatore dei Fieschi.

E non posso non emozionarmi ancora rileggendo la descrizione di Federico ii , quando, per dire la sua abilità nelle lingue, trovo che qualcosa di quella descrizione provenga dalle estemporanee lezioni di zenese che avevano luogo nella nostra piccola Svizzera. Eccomi sfiorare ancora la pietra di lavagna che Elena mi diede insieme colla prima copia.

Recentemente, nel 2018, sono tornato a Chiavari, in occasione del Festival della Parola, proprio portando in scena un omaggio a Elena Bono con un testo elaborato insieme con Francesco Marchitti da diversi materiali (versi, racconti, e prose di romanzi).

Li vedo ancora, affacciati, a salutarci fino all’ultimo possibile sguardo, lungo la via che mi avrebbe portato in stazione.

di Domenico Galasso