Viaggio tra una popolazione dimenticata: il campo rom alla Monachina

Si fa presto a dire casa

 Si fa presto a dire casa  QUO-253
06 novembre 2021

Districarsi nel mondo variegato della comunità rom e di tutto ciò che ci gira intorno non è facile. Il materiale è magmatico, sfuggente. Quando ti sembra di aver messo un punto, l’argomento si riapre, con elementi che contraddicono quanto appreso. E si ricomincia. Ciò è dovuto alla mancanza di dati certi e univoci, al disaccordo fra le associazioni di rappresentanza e, nondimeno, alle modalità di comunicazione di chi per e con i rom lavora. Tanto per dare un’idea, l’ufficio preposto del Comune di Roma non parla con i giornalisti. Bisogna passare per l’ufficio stampa, che provvede ad inviare le domande scritte a chi di competenza. Tralasciando i commenti su questa prassi, la cosa avrebbe un qualche senso se le risposte alla fine arrivassero, cosa che, almeno in questo caso, non è successa. E poi, l’associazione Croce Rossa Italiana, che si è aggiudicata il bando per il superamento dei campi La Monachina e La Barbuta, non fornisce dati scritti ma solo verbali. Quando si parla di numeri, però, è facile confondersi, anche perché questi non sempre combaciano con quelli forniti dalle associazioni di volontariato che operano sul campo. Così, per tagliare la testa al toro, in questo testo, e in quelli che seguiranno, compariranno quasi esclusivamente le statistiche contenute nel rapporto conclusivo del “Piano per il superamento dei campi e l’inclusione della Popolazione Rom, Sinti e Caminanti, 2017-2021”, del Comune di Roma. Ciò di cui, invece, soprattutto ci avvarremo sarà, come sempre, la testimonianza diretta di persone che incarnano questi numeri. Come quella di Leon.

Leon, 54 anni, è originario del Montenegro, dove ha vissuto solo pochi giorni. I suoi genitori, poco dopo la sua nascita, si sono trasferiti in Italia. Per 25 anni ha vissuto nel campo della Monachina insieme alla mamma, al papà e ai cinque fratelli. Da quando il campo è stato chiuso, nel luglio scorso, vive in un parcheggio nel quartiere Massimina. La Monachina si trova nel xiii Municipio, vicino a via di Casal Lumbroso, ed è un campo “tollerato”, cioè non attrezzato dal Comune, che ha fornito solo i bagni chimici e sparso la ghiaia sul terreno. Gli abitanti si sono organizzati con vecchi generatori per l’elettricità, con le bombole del gas e con l’acqua che sgorga da una fontanella. Secondo l’ultimo censimento (2020), prima dello sgombero erano presenti 65/70 persone di varie nazionalità. Chi ha aderito al Progetto di inclusione abitativa e lavorativa, che, solo per questo campo, ha avuto un costo di 500.000 euro per tre anni (2018-2021), ha sottoscritto un patto di responsabilità sociale. Per quanto riguarda l’alloggio, gli abitanti avevano più possibilità: l’accesso all’edilizia popolare (se in possesso dei requisiti); un contributo di 10.000 euro per un affitto privato; il cohousing, cioè la coabitazione con altre persone, per due anni. I nuclei familiari che hanno trovato una casa con il contributo all’affitto sono 4; con la formula cohousing, 6. Poi ci sono 9 famiglie che hanno trovato una abitazione in totale autonomia e altre 2 che hanno ottenuto una casa popolare, anche loro in maniera autonoma. Secondo la Comunità di Sant’Egidio, presente in questo come in tutti gli altri campi, dopo lo sgombero sono rimaste fuori 39 persone. Alcune sono riuscite a trovare un alloggio di fortuna dopo qualche settimana, 26 si trovano ancora in strada, e dormono nelle macchine o sotto qualche precario riparo. Di queste, 18 sono bambini, uno dei quali appena nato e uno di otto mesi. Sono coloro che non hanno firmato il patto e che fanno parte, secondo il Comune, di quello “zoccolo duro di individui che resiste ad ogni tentativo di emersione dalla situazione del campo”. In realtà, solo in pochi hanno fatto una reale scelta. Alcuni si trovano scoperti perché non erano presenti al momento del censimento, altri per assenza di documenti. In altri casi ancora si è trattato di una conseguenza indipendente dalla propria volontà. Come nel caso di Leon, che aveva aderito al cohousing ma che poi ha dovuto rinunciare per incompatibilità con la famiglia con cui era stato destinato, proveniente da un campo diverso. «Non si può vivere obbligatoriamente con qualcuno che non conosci. E poi non avrei potuto ospitare neanche mia figlia», dice l’uomo, il viso intrecciato di rughe e gli occhi stanchi. Al campo viveva insieme alla compagna, alla figlia di 16 anni e all’amatissimo cane. La donna ha usufruito del buono casa di 10.000 euro e si è trasferita con la ragazza in Lombardia, dove lavora come badante. Lui, invece, non si è voluto spostare: «Ho il mio giro di lavoro qui, non me ne posso andare». Leon raccoglie e vende materiale ferroso. Con i 5.000 euro del buono lavoro (uno dei due ottenuti alla Monachina), ha comprato un furgone e ha regolarizzato la sua posizione, aprendo la partita Iva e iscrivendosi alla Camera di commercio. Il furgone è uno strumento di lavoro ma anche una casa. La sera, Leon ci infila il letto matrimoniale che, durante il giorno, lascia da qualche amico. Per difendersi dal freddo dorme con tre coperte e con i vestiti indosso. Ha anche una stufetta a gas. «Lo so, è pericoloso, ma almeno smetterei di soffrire». Da quando ha subito lo sgombero è caduto in depressione. Accende una sigaretta dopo l’altra, fino ad arrivare a quattro pacchetti al giorno. «Mi è venuto in mente di prendere qualche pasticca per farla finita. Non si può vivere in mezzo alla strada. Io al campo ci stavo bene. Ora non ho più niente. Mi hanno tolto pure il cane. Non posso neanche andare a trovarlo al canile, vedermi lo fa soffrire. Soffriamo tutti e due». Ogni due/tre giorni cambia parcheggio, per non dare troppo nell’occhio. Ha i suoi punti di riferimento. Il bar, che gli concede l’uso del bagno e, a volte, anche un caffè, e la tavola calda. Per fare la doccia va all’autogrill. Il lavoro non gli manca. Va tutti i giorni a raccogliere il ferro nei cantieri, nelle officine, nelle discariche e preleva gli elettrodomestici rotti in ristoranti, negozi, bar o da privati, e poi li rivende: un quintale per sette euro. Ma fa anche traslochi, il muratore e tutto quello che capita. Guadagna dai 50 ai 100 euro al giorno. «Con i soldi che incasso potrei prendere una casa in affitto, ma chi mai la darebbe a uno come me?». Il padre di Leon, 70 anni, non ha accettato di vivere in coabitazione fin dall’inizio, neanche con il figlio, e, come lui, vive in una macchina nei parcheggi della zona. Il veicolo è attrezzato con materasso e qualche coperta, che non basterà per ripararlo dal freddo che sta arrivando. Non sta bene in salute e non può più lavorare nei mercatini, come faceva prima. «Stiamo messi male», commenta. «Non pretendo che mi diano una casa, quella no, datela agli italiani», dice accorato Leon. «A me basterebbe un pezzo di terreno con una roulotte. Starei una favola. Potrei tenere anche il cane». La figlia gli manca. Anche lui a lei. È stata molto male quando ha dovuto lasciare il padre e i suoi amici e quando è libera dagli impegni scolastici torna. «Sono stanco. Ma è facile, prendo le medicine e finisce tutto. Se non ci fosse mia figlia…».

di Marina Piccone