Partecipare tutti

 Partecipare tutti  QUO-253
06 novembre 2021

Le parole del concilio Vaticano ii hanno spalancato le porte della Chiesa al mondo con una ventata di freschezza e di rinnovamento: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». La Chiesa aveva sposato in pieno la modernità mentre l’avvento della società di massa e delle grandi metropoli rimetteva in discussione tutte le organizzazioni tradizionali dei saperi, delle classi sociali, della politica e della democrazia. La “presa della parola” del maggio 1968 — ha scritto Michel de Certeau — appariva come una nuova presa della Bastiglia che decretava l’inizio del mondo nuovo. A cinquant’anni dalla Gaudium et spes ci chiediamo se siamo nel pieno della tempesta di un «Cristianesimo in frantumi» (è il titolo dell’inchiesta del 1974 di de Certeau con Jean-Marie Domenach) o se siamo all’inizio dell’avvento di quell’epoca dello Spirito, richiamata anche da Giuseppe De Rita su queste pagine, che Henri de Lubac ha descritto nella sua opera monumentale La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore.

Adottando la formula che Umberto Eco ha utilizzato per descrivere il dibattito sui nuovi media della cultura di massa, possiamo schematicamente sintetizzare il dibattito post-conciliare con la formula degli “apocalittici e integrati”: da una parte i profeti di sventura inneggianti al ritorno alla tradizione e ai valori di una volta e dall’altra i lanciatissimi surfisti sulle onde della postmodernità secolarizzata e relativista. In mezzo, la Chiesa, accompagnata dalle discussioni sulle diverse forme della presenza dei cristiani nel mondo, dalla “scelta religiosa” dell’Azione cattolica al cristianesimo come “avvenimento” e presenza di Comunione e liberazione. Intanto la società di massa e la crescita economica hanno cominciato a fare i conti con le grandi contraddizioni e paure del processo sempre più inarrestabile della globalizzazione e gli epocali processi migratori, sempre più percepiti come una nuova ondata dei barbari alle porte che minaccia la sicurezza dell’Occidente. Le nuove grandi narrazioni dello stato di insicurezza e inquietudine che circola in questi decenni sono quelle del cinema e della fiction, dai film distopici come Matrix fino alla serie Squid game, intrisa di violenza e riferimenti filosofici. La teologia stessa e l’aria culturale che respiriamo hanno fatto i conti con il “pensiero debole”, anima della secolarizzazione: non tanto una perdita del sacro quanto piuttosto un’assenza della trascendenza come criterio della verità e della razionalità che finisce per declinarsi come un’interpretazione mai definitiva del senso delle cose. Non si tratta più soltanto della secolarizzazione che ha investito la religione bensì è il pensabile stesso che è “secolarizzato” perché nell’attuale contesto culturale caratterizzato dalla pluralità dei saperi è impossibile restaurare qualsiasi teoria unitaria della conoscenza e delle discipline sempre più parcellizzate e specialistiche. La realtà diventa così “l’oggetto perduto”, sempre supposto e sempre mancante, sopratutto dopo quello che Jean Baudrillard ha chiamato “il delitto perfetto”, l’uccisione della realtà a opera del dominio della televisione e delle immagini dei media per cui diventa impossibile spesso distinguere la realtà dalla finzione.

Michel de Certeau descrivendo la situazione del cristiano in questo contesto — soprattutto nel libro La debolezza del credere — non vuole promuovere un cristianesimo “debole”, ma più in generale ridefinire l’identità e il ruolo dei cristiani nel mondo della complessità. Al centro viene rimessa la testimonianza evangelica dell’individuo, il rischio personale, il legame tra affettività e politica: «Ciò che sparisce è dunque la possibilità per l’esperienza cristiana di fare corpo essa stessa. Ma, d’altra parte, si rinforza la necessità — e il desiderio — di fare corpo con la storia. Come caduta dalla nave ecclesiale, nel momento in cui affonda, l’esperienza di fede si perde nell’immenso e incerto poema di una realtà anonima per ricevere da questa storia indefinita una via che appaga ciascuno oltrepassandolo. Non c’è altro corpo che il corpo del mondo e i corpi mortali».

In un sistema di luoghi definiti da vecchi steccati e confini sia fisici che epistemologici ormai sempre più labili, si introduce il non-luogo della differenza dell’“altro” — il diverso, lo straniero, il “perturbante”, indifferente a ogni tentativo di conversione — che investe pienamente anche la pratica della fede e la rappresentanza politica. Lo stesso credere non è che “una pratica della differenza” in quanto «il credere si pone in rapporto a un altro. Esso implica sempre il supporto dell’altro, che è colui sul quale si deve poter contare, non c’è più il credere lì dove la differenza è cancellata». La categoria dell’alterità ha comportato un vero e proprio cambiamento di paradigma nella cultura contemporanea e nella teologia: da Totalità e infinito di Emmanuel Lévinas — la più radicale critica e rifondazione della metafisica occidentale — a Sé come un altro di Paul Ricœur, da Dio senza essere di Jean-Luc Marion a Il principio speranza di Ernst Bloch, dalla Teologia della speranza di Jürgen Moltmann a Sul concetto della nuova teologia politica di Johann Baptist Metz. Solo per citare alcune delle opere che hanno fatto da “segnavia” a questa nuova weltanschauung. Non si è trattato solo di una grande elaborazione culturale e accademica bensì il frutto di “pratiche” che le comunità hanno prodotto, anche nell’anonimato e nell’apparente marginalità. Perché — e questo è il nodo per un’altra lettura della crisi — sotto la fin troppo sbandierata narrazione della fine dei valori, del riflusso nel privato, della crisi delle ideologie e dello svuotamento delle chiese, possiamo leggere invece un ruolo attivo e creativo delle persone, dei credenti, dei cittadini, dei giovani. E qui il riferimento è ancora a un testo prezioso come L’invenzione del quotidiano di Michel de Certeau. Della crisi religiosa dell’epoca della secolarizzazione e della mancanza di partecipazione alla vita della comunità, ecclesiale e politica, è possibile una differente lettura, capace di andare oltre la semplice rilevazione statistica e i sondaggi, come ha scritto Jean Baudrillard in All’ombra delle maggioranze silenziose. Ovvero la fine del sociale. Dietro l’apparente uniformità dei numeri e delle statistiche che delineano un’assenza delle persone nelle chiese e nella politica si nasconde una molteplicità di pratiche, di tattiche, di “astuzie”, in definitiva di una “invenzione del quotidiano” a opera delle persone e dei cittadini. E che la Chiesa e la politica dei partiti spesso non sanno intercettare. Ci sono delle forme di resistenza, di microlibertà, di prassi che reinventano i luoghi e i modi di vivere la fede e anche l’impegno sociale e politico. Una miriade di pratiche di inversione e sovversione a opera dei più deboli e di coloro che non hanno rappresentanza e che richiedono di essere ancora raccontate.

Fra gli interstizi del potere tecnocratico ed economico della globalizzazione c’è una libertà delle pratiche quotidiane della gente. Ma bisogna essere predisposti a coglierla adottando la lettura cristiana della storia che crede in una fattiva e reale rivoluzione scritta dagli umili e dai poveri. In questa lettura la relazione tra la kenosis e la gloria del Cristo diventa la base per un ripensamento dell’autorità e del potere: la tomba vuota è la condizione della venuta dello Spirito, la verità dell’inizio non si rivela se non nello spazio delle possibilità che apre, «essa non appare che alienata in ciò che permette — scrive Michel de Certeau —, si perde in ciò che autorizza. Muore indefinitamente alla sua particolarità storica ma nelle invenzioni che suscita». Il potere religioso e politico ne risulta stravolto: «Permettere significa morire. Nell’itinerario personale, nella trasmissione pedagogica, nell’organizzazione sociale, la verità spirituale ha ormai per traccia la relazione reale tra la cancellazione di una singolarità e ciò che essa rende possibile: una manifestazione disseminata nella pluralità della “vita comune” (Ruusbroec)». Fino a investire il ripensamento della prassi politica e del potere: «La politica non assicura la felicità, non dona il senso delle cose. Essa crea o rifiuta delle condizioni di possibilità. Interdice o permette: rende possibile o impossibile». In tal senso una politica della semplice difesa dei suoi apparati e autoreferenziale, chiusa all’ascolto dei cittadini, ha ormai manifestato tutta la sua irrilevanza così come le politiche della creazione dei muri e del rifiuto dei poveri. Se l’altro è il fondamento della modernità, la politica ha senso solo come apertura dei possibili, come riconoscimento dei volti dell’alterità. Non a caso l’immigrato diventa la figura esemplare della modernità; egli infatti ha già vissuto sulla sua pelle il destino di ciascuno di noi: vivere “la doppia assenza”, quella dell’abbandono di un’identità ormai impossibile e quella della ricostruzione di un’identità ancora da trovare, come scrive Bruno Forte in Confessio theologi. Ai filosofi: incontrare l’altro «è vivere in sé la frontiera». Siamo tutti migranti e in cammino alla ricerca di una nuova identità plurale, coscienti che l’altro/lo straniero, che spesso ci inquieta e ci mette paura, abita dentro noi stessi. E il desiderio più profondo dell’uomo resta sempre il desiderio dell’altro, come ci ricordano lo psicoanalista Jacques Lacan e, recentemente, Massimo Recalcati.

Oltre l’antropologia dell’illusione individualistica e del primato dell’io si affaccia un nuovo ethos, quello che Italo Mancini indicava col titolo di un suo bel libro, Tornino i volti, e che Michel de Certeau declina con la categoria del “mai- senza-l’altro”. Diventa così possibile rileggere la forza dell’utopia e della costruzione del legame comunitario che Herbert Marcuse aveva descritto in Eros e civiltà alla luce di una “teologia dei pellegrini”: «Pensiero rapsodico, provvisorio, umile certamente — scrive ancora Bruno Forte — e tuttavia appeso a quella Croce che è e resta nella notte del mondo il punto di riferimento, la stella della redenzione».

di Luigi Mantuano