Messa in suffragio dei cardinali e dei vescovi defunti nel corso dell’anno

L’arte di saper attendere il Signore

 L’arte di saper attendere il Signore  QUO-251
04 novembre 2021

La messa in suffragio dei cardinali e dei vescovi defunti nel corso dell’ultimo anno è stata presieduta da Papa Francesco alle 11 di giovedì 4 novembre, all’altare della Cattedra della basilica Vaticana. In particolare, tra novembre 2020 e ottobre 2021 sono morti 17 porporati e 191 tra arcivescovi e vescovi. Alla celebrazione erano presenti 29 cardinali, tra i quali il segretario di Stato, Pietro Parolin, e il decano del Collegio cardinalizio, Giovanni Battista Re, che al momento della consacrazione eucaristica si è accostato all’altare insieme con il cardinale vice-decano Sandri. Con il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede erano, tra gli altri, gli arcivescovi Peña Parra, Gallagher e Pawlowski, rispettivamente sostituto, segretario per i Rapporti con gli Stati e segretario per le Rappresentanze pontificie. Alla preghiera dei fedeli sono state elevate intenzioni, anzitutto, per Francesco, per i cardinali, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. Si è quindi pregato per quanti hanno responsabilità civili e sociali, e per tutti i defunti e i battezzati. Il rito si è concluso con il canto dell’antifona mariana «Sub tuum praesidium» intonata dai cantori del coro della Cappella Sistina. Ecco il testo dell’omelia del Papa.

Nella prima Lettura abbiamo ascoltato questo invito: «È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore» (Lam 3, 26). Questo atteggiamento non è un punto di partenza, ma un punto di arrivo. L’autore infatti vi approda al termine di un percorso, un percorso accidentato, che lo ha fatto maturare. Egli arriva a comprendere la bellezza di fidarsi del Signore, il quale non viene mai meno alle sue promesse. Ma la fiducia in Dio non nasce da un entusiasmo momentaneo, non è un’emozione e nemmeno solo un sentimento. Al contrario, viene dall’esperienza e matura nella pazienza, come accade a Giobbe, che passa da una conoscenza di Dio “per sentito dire” a una conoscenza viva, esperienziale. E perché ciò avvenga, è necessaria una lunga trasformazione interiore che, attraverso il crogiuolo della sofferenza, porta a saper attendere in silenzio, cioè con pazienza fiduciosa, con animo mite. Questa pazienza non è rassegnazione, perché ad alimentarla è l’attesa del Signore, la cui venuta è certa e non delude.

Cari fratelli e sorelle, com’è importante imparare l’arte di attendere il Signore! Aspettarlo docilmente, fiduciosamente, scacciando fantasmi, fanatismi e clamori; custodendo, soprattutto nei periodi di prova, un silenzio carico di speranza. È così che ci si prepara all’ultima e più grande prova della vita, la morte. Ma prima ci sono le prove del momento, c’è la croce che abbiamo adesso, e per la quale chiediamo al Signore la grazia di saper aspettare lì, proprio lì, la sua salvezza che viene.

Ognuno di noi ha bisogno di maturare in questo. Davanti alle difficoltà e ai problemi della vita è difficile avere pazienza e rimanere sereni. Serpeggia l’irritazione e spesso arriva lo sconforto. Può così capitare di essere fortemente tentati dal pessimismo e dalla rassegnazione, di vedere tutto nero, di abituarsi a toni sfiduciati e lamentosi, simili a quelli dell’autore sacro che all’inizio dice: «È scomparsa la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore» (v. 18). Nella prova nemmeno i bei ricordi del passato riescono a consolare, perché l’afflizione porta la mente a soffermarsi sui momenti difficili. E ciò accresce l’amarezza, sembra che la vita sia una catena continua di sventure, come ammette ancora l’autore: «Il ricordo della mia miseria e del mio vagare è come veleno» (v. 19).

A questo punto, però, il Signore imprime una svolta, proprio nel momento in cui, pur continuando a dialogare con Lui, sembra di toccare il fondo. Nell’abisso, nell’angoscia del nonsenso, Dio si avvicina per salvare, in quel momento. E quando l’amarezza raggiunge il culmine, all’improvviso rifiorisce la speranza. È brutto arrivare alla vecchiaia con il cuore amaro, con il cuore deluso, con il cuore critico delle cose nuove, è molto duro. «Questo intendo richiamare al mio cuore — dice l’orante del Libro delle Lamentazioni —, e per questo voglio riprendere speranza» (v. 21). Riprendere speranza nel momento dell’amarezza. Nel vivo del dolore, chi sta stretto al Signore vede che Egli dischiude la sofferenza, la apre, la trasforma in una porta attraverso la quale entra la speranza. È un’esperienza pasquale, un passaggio doloroso che apre alla vita, una sorta di travaglio spirituale che nel buio ci fa venire di nuovo alla luce.

Questa svolta non avviene perché i problemi sono scomparsi, no, ma perché la crisi è diventata una misteriosa occasione di purificazione interiore. La prosperità, infatti, spesso rende ciechi, superficiali, orgogliosi. Questa è la strada alla quale ci porta la prosperità. Invece il passaggio attraverso la prova, se vissuto al calore della fede, malgrado la sua durezza e le lacrime fa sì che noi rinasciamo, e ci ritroviamo diversi rispetto al passato. Un padre della Chiesa scrisse che «nulla più della sofferenza induce a scoprire cose nuove» (S. Gregorio di Nazianzo , Ep. 34). La prova rinnova, perché fa cadere molte scorie e insegna a guardare oltre, al di là del buio, a toccare con mano che il Signore salva davvero e che ha il potere di trasformare tutto, perfino la morte. Egli ci lascia attraversare delle strettoie non per abbandonarci, ma per accompagnarci. Sì, perché Dio accompagna, soprattutto nel dolore, come un padre che fa crescere bene il figlio standogli vicino nelle difficoltà senza sostituirsi a lui. E prima che sul nostro viso spunti il pianto, la commozione ha già arrossato gli occhi di Dio Padre. Lui piange prima, mi permetto di dire. Il dolore resta un mistero, ma in questo mistero possiamo scoprire in modo nuovo la paternità di Dio che ci visita nella prova, e arrivare a dire, con l’autore delle Lamentazioni: «Buono è il Signore con chi spera in lui, con colui che lo cerca» (v. 5).

Oggi, davanti al mistero della morte redenta, chiediamo la grazia di guardare con occhi diversi le avversità. Chiediamo la forza di saperle abitare nel silenzio mite e fiducioso che attende la salvezza del Signore, senza lamentarci, e senza brontolare, senza lasciarci rattristare. Ciò che sembra un castigo, si rivelerà una grazia, una nuova dimostrazione dell’amore di Dio per noi. Saper attendere in silenzio — senza chiacchiericci, in silenzio — la salvezza del Signore è un’arte, sulla strada della santità. Coltiviamola. È preziosa nel tempo che stiamo vivendo: ora più che mai non serve gridare, e suscitare clamori, amareggiarsi; serve che ognuno testimoni con la vita la fede, che è attesa docile e speranzosa. La fede è questo: attesa docile e speranzosa. Il cristiano non sminuisce la gravità della sofferenza, no, ma alza lo sguardo al Signore e sotto i colpi della prova confida in Lui e prega: prega per chi soffre. Tiene gli occhi al Cielo, ma ha le mani sempre protese in terra, per servire concretamente il prossimo. Anche nel momento della tristezza, del buio, il servizio.

Con questo spirito, preghiamo per i Cardinali e i Vescovi che ci hanno lasciato nell’anno trascorso. Alcuni di loro sono morti a causa del Covid-19, in situazioni difficili che hanno aggravato la sofferenza. Possano ora questi nostri fratelli assaporare la gioia dell’invito evangelico, quello che il Signore rivolge ai suoi servi fedeli: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo» (Mt 25, 34).