Sabato italiano La messa dalla prospettiva di un sacerdote seduto tra i banchi

Dalla parte dei fedeli

 Dalla parte dei fedeli  QUO-248
30 ottobre 2021

Da vent’anni la domenica non entravo a messa come ogni semplice cristiano. Doverla presiedere implica infatti un arrivarvi diverso, non solo per la preparazione che richiede ma per il modo in cui quel momento si inserisce fra tutti gli altri. In un bel pomeriggio d’inizio autunno, complice un cambio di destinazione nel ministero, per una volta a messa sono tornato da fedele. Senza andare lontano, senza scegliere troppo: attraversando la strada ed entrando nella chiesa più vicina a casa. Con una certa emozione nello stare dall’altra parte, con l’attesa di chi, un po’ come un bambino, sta per vivere qualcosa di nuovo. Il desiderio di un incontro sollevato dal ruolo e dalla visibilità, intimo come la cena di Emmaus, nel corso di un’ora, però, ha dovuto subire la frustrazione che tante volte mi era stata confidata, come fatica e protesta. Dall’ultima fila, ospitato da navate inondate dalla luce calda del tramonto, avvertivo via via più intensa, più soffocante, più insopportabile, la tiepidezza di un’assemblea annoiata e senza vita. Non un solo canto dall’inizio alla fine, nemmeno un alleluja per celebrare la Risurrezione. Lettori improvvisati e pagine bibliche neutralizzate dalla mancanza d’espressione e dall’impianto audio disturbato. Un confratello apparentemente senza desiderio: parole sbiascicate e monotonamente lette dal messale che suscitano risposte meccaniche da fedeli disabituati ad ascoltarsi a vicenda, a “fare corpo” con la voce e nella vita. Scambio di pace senza contatto, in tempi di pandemia: gli sguardi sono furtivi e vuoti, come tra sconosciuti, ma ogni movimento è come diminuito, l’intera gestualità sembra atrofizzata. Una sorta di svogliatezza regna su tutto. E la chiesa è piena.

Vuota, invece, martedì è la chiesa nel cuore di Roma in cui mi appresto a celebrare. Ore 13: bella scommessa di missionari che credono che una pausa pranzo possa cambiare la vita. Da pochi giorni sono ospitato nella loro comunità e viene il mio turno di presiedere nel mezzo della giornata lavorativa. Mi pare di essere solo: che faccio? Tutti i posti sono vuoti. Aspetto qualche minuto. Ed ecco una donna che trascina faticosamente il suo carrello, carica delle borse in cui ogni mattina raccoglie ciò che ha, avanza e si ferma in quarta fila, inginocchiandosi. Avvio la celebrazione, durante la quale lei non si alza: rimane in ginocchio. Nei dialoghi liturgici ci guardiamo negli occhi: fatica con l’italiano, ma colgo che li ha memorizzati senza conoscere il senso di ogni singola parola. È un incontro. Si avverte che c’è dell’altro, oltre a noi due, e non si tratta solo dei turisti che si affacciano dal fondo e, restando stupiti, si muovono con rispetto, preoccupati di disturbare. C’è dell’altro: lo Spirito, la Chiesa. C’è anche chi non c’è. Non scriverei così, probabilmente, se quella donna non mi avesse scosso improvvisamente col suo canto: il canto di una senzatetto. Al Vangelo intono l’alleluja coprendo con la mia la sua voce, ma giunto al Santo tiro dritto, recitandolo. Ed è lì che la sua fede scavalca la mia, interrompe le parole e canta con una melodia che ricorda. Non appena la riconosco, mi unisco alle sue note.

Chi va a messa, perché ci va? Non solo tra gli alunni di un liceo e ancor più fra gli universitari ma negli ambienti di lavoro e nella gran parte delle famiglie italiane frequentare la chiesa rappresenta una stranezza, l’eccezione. «Tu che vai a messa»: può rappresentare un onere, una scelta che catalizza interrogativi e provocazioni, talvolta sincera curiosità. Eppure, non è vero che le chiese sono vuote. La chiusura di molti luoghi sacri, la riduzione delle celebrazioni, la diminuzione del clero consentono forse di rinviare la domanda sul perché ci siano ancora dei fedeli. Sì, perché se l’onere della prova è rovesciato nella loro quotidianità e come pecora nera viene guardato il fedele e non l’infedele, al pastore il cambiamento d’epoca impone una rivoluzione di prospettiva: perché viene chi viene? Avendo dedicato molta cura, nel corso degli anni, a preparare la domenica, trovando non poche resistenze nel “si è sempre fatto così” di chi occupa sacrestie e altare, sono interrogato dalle chiese ancora piene. Soprattutto quando chi le frequenta ne esce intorpidito, intatto e magari deluso. Considero un grande dono la domenica in cui le circostanze mi hanno risospinto tra i fedeli: ha impresso nella mia coscienza una santa inquietudine. Che cosa pensano loro della messa cui sono andati? Ce ne sono molte in città: perché frequentano quella, in cui sembra mancare tutto, in cui persino la predicazione è un’offesa all’intelligenza e sale, invece che olio, sulle ferite? Perché non cambiano chiesa? Perché non rimangono a casa?

Esiste la fede, senza dubbio, del santo popolo di Dio, che a messa ci va perché c’è Dio. Eppure, è nella natura stessa dell’incarnazione che l’azione di Dio investa i sensi, risusciti i corpi, nutra l’intelligenza, dia forma a una comunione tangibile. Può una vita intera trascorrere senza che questa efficacia caratterizzi il reale convenire eucaristico? Accanto alla fede, infatti, esiste la non fede, nello svuotarsi silenzioso dei gesti e nel banalizzarsi dei segni, nell’indurirsi dei cuori e nell’irrigidirsi delle menti: una malinconia, un venir meno della speranza e della gioia, scivolamento del rapporto con Dio in do ut des. Per cui, sì: «A messa vado perché devo, me lo hanno insegnato, sono i miei valori». Ma detto bruscamente, come chi è stato disturbato in ciò di cui non possiede più il principio vitale. La pastorale più difficile, anche per il solo vero pastore, raccontano i vangeli sia stata con chi non ha bisogno di medico, con chi dice di non essere cieco. Con chi a messa va. È un patto col diavolo quello che stringiamo quando non solleviamo il velo su tanta apatia di quei non credenti praticanti che tutti possiamo diventare, persino salendo all’altare. Non esistono, infatti, soltanto la fede e la non fede allo stato puro: esiste la sofferenza di chi cerca ma non trova, di chi chiede e non riceve, di chi bussa e non trova aperto. Un cattolicesimo di popolo non vive di poche chiese piene, non è compatibile con la rimozione delle domande, delle proteste, delle voci di dissenso, non resiste scansando le sfide spirituali del proprio tempo e tentando fino all’ultimo di perpetuare schemi ereditati da generazioni passate.

Un canto sgraziato, straziante, ma traboccante di fede segnò per sempre la vita di Simone Weil, quando da atea, comunista, ebrea, rivoluzionaria assistette al passaggio di una scalcinata processione, nel Portogallo degli anni Trenta. In lei si accese quella che poi chiamò “attesa di Dio”. Fu una esperienza che la condusse a Solesmes, la accompagnò ad Assisi, la portò a Roma, bisognosa di liturgia. Era la grande liturgia che i movimenti di rinnovamento novecenteschi consegnarono al concilio Vaticano ii affinché, di lì in poi, in ogni piccola comunità del mondo i sacramenti ritrovassero la loro espressività originaria, dilatando, illuminando e nutrendo l’esperienza di ogni fedele e dell’intero popolo di Dio. Una povera donna, che in ginocchio interrompe il celebrante ed eleva il suo canto, inno della chiesa intera nel mezzo di un giorno qualunque e tuttavia irripetibile, esiste perché qualcuno non ha smesso ancora di coltivare e di custodire il patrimonio ricevuto. Quel canto è stato ascoltato e memorizzato in un Paese straniero. Trasmesso. Tanta sofferenza c’è nel popolo di Dio per una liturgia ancora nelle mani di pochi, sfigurata dai loro comodi e dai loro gusti, irriformabile per non scontentare chi risulta tanto suscettibile nella propria inerzia.

Gesù non si è lasciato sopraffare dalle emozioni o dall’ira quando, entrando nel tempio e rovesciando i tavoli di cambiamonete e venditori di colombe, ha travolto gli affari di chi defigura una casa di preghiera aperta a tutti. La preghiera esige infatti un clima, un contesto, una continua riforma, una purificazione che ha il profumo del nuovo. Nuovo che si innesta sull’antico, che si nutre di meraviglie già avvenute, ma per riconoscerne di nuove. Nuovo che è Dio stesso, mistero inesauribile, sempre ancora sconosciuto, umiliato da chi lo nega restringendolo a cosa propria, a certezza acquisita. Ascoltare i fedeli, camminare con loro, celebrare guardandoli negli occhi e provare a entrare qualche volta in chiesa dalla loro parte rappresenta uno sconvolgimento che le Chiese di grande tradizione meritano di concedersi. Sinodo significa anche non aver paura di coloro con cui si cammina.

di Sergio Massironi