La Buona Notizia Il Vangelo della xxxi Domenica del Tempo Ordinario (Marco 12, 28-34)

L’amore al di sopra di tutto

26 ottobre 2021

Nel capitolo 12 di Marco si respira aria di ostilità: tutti vogliono incastrare Gesù e lo interrogano per metterlo in difficoltà. Tra i gruppi che gli muovono guerra c’è qualcuno, però, che subisce il fascino delle sue parole e non solleva quesiti tendenziosi ma libera un interrogativo autentico che non crea tensioni dialettiche o guerre verbali ma legge l’anelito intimo del cuore. Uno scriba, infatti, colpito dalla risposta che Gesù dà ai sadducei poco prima (Mc 12, 18-27), va dritto al cuore della vita di fede, che è l’alleanza, e pone una grande domanda: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» (Mc 12, 28).

Lo scriba è immagine dell’uomo religioso di tutti i tempi che cerca di destreggiarsi nei meandri della precettistica per individuare un criterio di unità, un principio cioè che possa sintetizzare tutta la Legge e aiuti il credente a non disperdersi in osservanze inutili che tolgono il respiro e rendono schiavi. Gesù prende sul serio la domanda dello scriba. Non stila una classifica di precetti ma punta a fargli cogliere l’essenza della Legge ricordandogli la professione di fede d’Israele: «Il primo [comandamento] è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mc 12, 29-31). Gesù coniuga così due testi del PentateucoDt 6, 4-5 (il famoso passo dello Shemà Israel che gli ebrei recitano tre volte al giorno) e Lv 19, 18 —, brani che invitano ad amare, riconoscendo l’unicità del vero Dio e accogliendo il volto di un prossimo che non è una minaccia ma dono di Dio che apre la vita alle multiformi espressioni della socialità, della solidarietà e della comunione spirituale.

In tal modo Gesù presenta i comandamenti non come delle imposizioni ma come la naturale conseguenza di una relazione intima, di un apprendistato dell’alterità di Dio e del prossimo che parte dall’ascolto, dall’accoglienza, dal sapere far spazio in se stessi e decentrarsi per dare vita ad un legame irrorato di fedeltà, ad un rapporto d’amore. Come ricorda infatti Es 19, 4-6, il Signore chiede a Israele l’ascolto e la fedeltà per ricordare, ravvivare e rendere sempre più attuale quell’amore ineguagliabile con cui egli si è legato a questo popolo per sempre, lo ha sollevato «su ali di aquile» liberandolo dalla schiavitù d’Egitto e lo ha fatto entrare al suo servizio.

L’alleanza di Dio con il suo popolo non si basa quindi su costrizioni finemente occultate dalla maschera elegante della Legge ma su una relazione d’amore che è il principio che unifica la vita e la rende storia di alleanza, cammino di fede, approdo alla comunione con Dio e appartenenza al suo popolo. Si può rendere culto a Dio con digiuni, preghiere, elemosine e sacrifici, credendo di poter fabbricare da sé la propria salvezza oppure si può amare Dio facendo spazio alla sua Parola e lasciando che essa si trasformi in carne nella nostra vita. Il primo è un goffo tentativo di superare una distanza incolmabile e di appagare un bisogno infinito, il secondo è l’esperienza del lasciarsi salvare, accogliendo la presenza trasformante di Dio e lasciando che essa impregni ogni facoltà umana e ogni ambito del vivere per avviare un processo di trasfigurazione che spinge verso il compimento.

Gesù ricorda allo scriba che la fede non consiste in una lista di preghiere da sciorinare, né in un’impalcatura di regole sulla quale arrampicarsi, né in una formula da ripetere a menadito che mette al riparo da ogni male e sfocia nella presunzione di aver raggiunto la perfezione. La fede è audace e contempla il rischio di esporsi alla relazione per costruire un’alleanza durevole con quel Dio che è «mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo» (Sal 17/18, 3), un Dio che non ci attira a sé come monadi ma come «pietre vive» impiegate nella costruzione di «un edificio spirituale» (1Pt 2, 4), che è la sua Chiesa, il suo corpo.

Fare spazio a Dio e al prossimo nell’amore è dunque la liturgia più genuina, è il culto spirituale in cui noi stessi diventiamo «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12, 1), come il Figlio che non ha offerto qualcosa ma tutto «se stesso» (Eb 7, 27). Riconoscendo l’amore superiore a ogni osservanza possiamo anche noi, come lo scriba, sapere di non essere lontani dal regno di Dio (Mc 12, 34).

*Consacrata dell’Ordo virginum
e docente di teologia biblica
(Pontificia Università Gregoriana)

di Rosalba Manes *