Lettere dall’Amazzonia

Lo sciamano si è ammalato?

 Lo sciamano  si è ammalato?  QUO-240
21 ottobre 2021

Stretti  da un assedio che si fa sempre più feroce (in  agosto  la foresta ha perso altri 1.606 km2, cinque volte lo Stato di Belo Horizonte; mentre dallo Stato del Roraima giungono notizie di attacchi dei “garimpeiros” — i cercatori d’oro — ai villaggi — le aldeias — addirittura con gli elicotteri), gli indios amazzonici stanno organizzando la loro pacifica resistenza chiedendo il rispetto dei propri diritti e dell’integrità della foresta. Sostenuti da una rete, che anch’essa cresce, di associazioni sociali e culturali, di cui la Chiesa è parte fondamentale. La resistenza si sviluppa attorno alla difesa della propria identità culturale, che da più parti chiede l’avvio di un dialogo tra le diverse etnie – un fatto del tutto inedito – che il ceto dominante vuole impedire. E dell’identità dei popoli indigeni amazzonici, momento cruciale è la figura dello sciamano (il pagè, nella lingua tupì): il sacerdote-guaritore di una religione animista, senza templi né immagini ma dall’intensissimo senso del sacro, che permea tutta la realtà e ogni momento della vita dei villaggi. 

Nel mio viaggio ne ho incontrati diversi, di diverse etnie. E ho potuto constatare — come mi conferma Marcos, portavoce del capo di un villaggio Mayuruna, ad Atalaia do Norte, nella Vale del Javarì — che: «Questa figura centrale della cultura indigena sta in generale declinando». Come se lo sciamano si fosse ammalato.

Nel villaggio Maià (nel Parco della Punta della Neblina), al confine con il Venezuela, dove fa bella mostra un centro sanitario efficiente, Patrizia, una delle due infermiere, mi dice: «Qui il pagè viene per lo più consultato dagli anziani, i giovani quasi lo ignorano. Ma la gente che si rivolge allo sciamano, quando vede che la malattia si aggrava, viene da noi. Ed è capitato di recente, in un villaggio della regione, che i parenti infuriati di un uomo che il pagè non è riuscito a guarire, per vendicarsi del congiunto morto, hanno ucciso lo sciamano». Ho incontrato il pagè di quella aldeia, una figura timida e di secondo piano, come ripiegato su un ruolo quasi ornamentale, che dopo i saluti si è subito eclissato, lasciando il posto al capo, che voleva parlare di politica e di sovvenzioni sociali. Anche il pagè del villaggio yanomami di Aiarì — a cinque ore di canoa dai Maià — mi è apparsa come una figura in declino: ammalato nella sua capanna in fondo all’aldeia, stanco e senza eredi (lo sciamano è una carica da sempre ereditaria). Per non parlare del popolo Cambebas — che ho incontrato a Sao Paulo de Olivenca, sul Rio Solimoes — che non ha più pagè.

Ma la figura dello sciamano resiste in molte altre comunità indios. Come nel villaggio yanomami di Maturacà (nel Parco della Punta del Neblino), dove incontro Miguel, capo e insieme sciamano della popolosa aldeia, insieme ai suoi fratelli George e Xavier, anch’essi sciamani, durante la Festa annuale della caccia e della banana. «Il pagè — mi dice Miguel — pone al servizio degli spiriti buoni il suo sangue e la sua carne, non tanto per guarire quanto per impedire l’assalto degli spiriti maligni che si avvicinano al villaggio, sotto forma di malattie, dell’irruzione dei “garimpeiros”, o di malefici degli stregoni nemici. E io stesso ho guidato la battuta di caccia di dieci giorni nella foresta, che ha  anticipato la nostra festa. E ho danzato, cantato e gridato, nei costumi tradizionali, per allontanare da noi i numerosi pericoli che si nascondono nella foresta, e perché la caccia avesse successo».

«Ma ci sono etnie dove il pagè
conserva intatto il suo forte ruolo di
sacerdote-guaritore, e  di sciamano della luce e delle tenebre» mi dice Fernando Lopez, straordinaria figura di gesuita, che con la sua Equipe degli itineranti (una ventina di persone, maschi e femmine, che vivono insieme, sia religiosi di diversi istituti che laici, indigeni e non), nata ad Aparecida nel 2007, percorre l ’intera Amazzonia, monitorando con una sofisticata tecnologia geosatellitare ed informatica le diverse situazioni a rischio e provvedendo interventi di aiuto, insieme alle istituzioni civili e cattoliche. «Tra i Marubo della Vale do Javarì, dove risiediamo — prosegue padre Fernando — è pratica diffusa, soprattutto in questa temperie di aggressioni continue, il rito sciamanico, dove il pagè — caduto in trance, dopo aver inalato il “rapè” (la sostanza allucinogena ricavata dalla corteccia di alcuni alberi) — guida tutto il villaggio, che canta e danza con lui, per allontanare i mali che lo sciamano “sente” avvicinarsi. È proprio come si legge ne La caduta del cielo, il celebre libro dello sciamano Davi Kopenawa e Bruce Albert, dove la figura del pagè è raffigurata come un mediatore tra il visibile e l’invisibile, tra il Cielo e la terra».

Ed ho incontrato anche una pagè (lo sciamano può essere sia uomo che donna), nel villaggio tikuna di Umariacù, a Tabatinga-Leticia, al confine con la Colombia. «Io sono cattolica — precisa Maria do Carmo — e a 17 anni ho sentito lo spirito invadermi corpo e anima. Da allora guarisco la gente, che viene da tutto il Brasile. Ma, a differenza dei pagè maschi, io non prendo allucinogeni. Scaccio gli spiriti maligni che si sono impossessati nelle persone con le preghiere cristiane, e in particolare recitando il Padre Nostro». Nello stesso villaggio c’è anche lo sciamano maschio. Aspetto dimesso e costumi semplicissimi, ma con gli occhi che ti perforano, Josè Pereira Ponziano (un nome che evoca Cent’anni di solitudine) ha ereditato dal padre a 7 anni e dopo una formazione di due lustri (caratterizzati dall’astensione dall’alcol e dal sesso), il ruolo di sciamano. E lui cura sia con la medicina tradizionale che con la possessione — in trance — da parte del suo spirito. «Perché — mi spiega — ogni pagè  ha uno spirito suo proprio». «Ma è Gesù — mi dice poi, lasciandomi un interrogativo sorprendente — lo Spirito supremo, tutto luce, che permette allo spirito del pagè di curare la gente, e di scacciare gli spiriti cattivi».

Sincretismo? Nel Brasile dai mille sincretismi, può darsi. Ma l’Amazzonia, pur avendo subito influssi religiosi andini e mesoamericani, oltre che dei discendenti degli schiavi africani, i Kilombola, è rimasta sostanzialmente immune dai sincretismi. Forse, è solo l’inizio di un cammino di rispettosa inculturazione del cristianesimo nella civiltà dei popoli indigeni. Una Chiesa capace di farsi veramente amazzonica.

di Raffaele Luise