La buona Notizia Il Vangelo della xxix Domenica del tempo ordinario (Marco 10, 35-45)

Ordo amoris: la vita propria in riscatto

 Ordo amoris:  la vita propria  in riscatto  QUO-232
12 ottobre 2021

Il filo del racconto di Marco, è tutto percorso da nascosto fuoco che arde e spinge avanti: alla sua energia (segnalata dall’incalzare degli annunci della croce) il cammino di Gesù si snoda mirabilmente, disegnando l’ordo amoris per la complessità dell’umano. Si era appena concluso l’incontro con l’uomo ricco, e il conseguente dialogo coi discepoli, interessati a sapere il vantaggio di aver seguito Gesù; e lui, in risposta, dopo aver riproposto la nudità necessaria per seguirlo, conclude: «Molti dei primi saranno ultimi, e gli ultimi primi» (Mc 10, 31). Silenzio. E il gruppo si rimette in cammino verso Gerusalemme. Loro arrancano, Gesù precede. Corre avanti. Pure, li vuole più radicalmente associati a sé («Saliamo» dice, Mc 10, 33). Così, la terza volta dell’annuncio della passione non è ripetizione del già detto: è rivelazione originaria, suprema, in tutta la sua paradossale bellezza. Sorge sul caos dell’umano rifiuto, dell’incomprensione, dello sgomento.

«Il figlio dell’uomo sarà consegnato». Appropriandosi l’appellativo carico di risonanza, Gesù s’identifica con l’umano. Come dicesse: l’uomo che rivela Dio, può essere solo rifiutato, accantonato, consegnato. Ed è proprio così che Gesù mitemente riscatta moltitudini.

In questo evento di consegna che squarcia la storia universale, tutti agiscono come possono, in base a quanto s’aprono alla luce; e tutti contribuiscono in definitiva a far sì che l’epifania ultima di Dio nella carne apra l’indecifrabile corso della storia umana e ne riveli la profondità divina. Maggiore sarà lo spiazzamento del discepolo, più luminosa sarà la manifestazione del figlio d’uomo (10, 34). Strano mistero di alleanza, tra responsabilità personale in divenire e necessità divina: lungo tutto il suo racconto, Marco mantiene in equilibrio mirabile, dialettico, questi due poli della storia. È così che i due “Boanerghes” offrono l’orizzonte di senso alla parola di Gesù che conclude tutte le predizioni e già si apre al Golgota: la vita propria consegnata in riscatto di moltitudini.

«Vogliamo che tu…», dicono i due: con piglio perentorio. La pretesa stolta, anzi infantile nella sua incoscienza, fa paradossale inclusione con la parola di Gesù nell’episodio immediatamente successivo (Mc 10, 51). Gesù, a Bartimeo che invoca pietà, domanda: «Che vuoi che io faccia per te?». I due Boanerges non sanno quel che pretendono: «alla destra e alla sinistra» nella sua gloria ci saranno i miseri, i maledetti. È ciò che sempre accade coi nostri desideri più impetuosi. È Gesù a prendere nelle sue sante mani il nostro desiderio. Se noi rimaniamo — pur mancanti — nella sua sequela, lui il desiderio lo rimodella, l’esaudisce. In un battesimo che, da sacramento dell’inizio, al Giordano, si trasforma in compimento pasquale.

La forza con cui la domanda di Gesù si rivolge ai due è inaudita, rimette ordine: «Potete voi…?». Poco prima aveva parato dell’impossibile (Mc 10, 27). E i Boanerges, saldi nel confuso anelito a stare con Gesù. In questa sorta di “prova” del desiderio si lasciano dislocare: ignari, perdutamente si fidano di Gesù. Il desiderio non si smentisce mai, si educa: si apre un ordine nuovo che non può essere determinato dall’esterno o riempito con la fantasia, ma che non per questo è meno saldo. È Dio che esaudisce il desiderio oltre ogni nostra misura. Così, la polemica dei dieci, e la risposta di Gesù introducono alla finale, supremamente rivelante, su ogni conflitto discepolare: «… sarà schiavo di tutti» (9, 34). L’immagine indica il limite estremo dell’abbassamento del figlio d’uomo e fa la verità. Se Gesù ha liberamente acconsentito a essere ridotto alla condizione di schiavo e a morire come un maledetto, ogni pretesa di dominare sugli altri per stare vicino a Gesù è radicalmente capovolta.

L’espressione finale è forte, nella sua nudità estrema: «la vita propria, data in riscatto», non ricorre altrove nel Nuovo Testamento. È, a un primo impatto, ripugnante. Suggella la rivelazione sulla kenosi di Dio e si ribalta su tutto l’umano soggetto a schiavitù. La vita propria per altri, tutti. Qualcosa di più e altro della generosità o dell’impegno attivo. Dare “la propria anima” è solo del Figlio amato; spinge oltre, dice Dio.

È l’atteggiamento che Gesù ha già dall’inizio, molto prima di dover morire. Come splendidamente disse, discepolo sulle orme e in grazia di Gesù, il monaco Christian De Chergé, prevedendo una morte violenta eseguita da oscuri poteri: «Vorrei si ricordasse che la mia vita era già donata a Dio e a questa terra». Gesù in questa parola finale raccoglie, elabora, consegna il frutto maturo della profezia. Isolato e negato, egli scende fino al fondo dell’abisso, ma lì offre la «giustizia» che perdona e riconcilia: dona pace ecumenica. L’ordo amoris che muove l’universo. I discepoli non hanno parola. È, da molti punti di vista, la parola ultima di Gesù ai suoi. Dopo, non c’è altro che l’evento: l’ultimo servizio. Dello schiavo. Del Figlio d’uomo, riscatto dei perduti.

di Maria Ignazia Angelini