Bailamme

Ode all’Autunno

John Keats; portrait by Joseph Severn, 1821–1823
08 ottobre 2021

Stagione di nebbie e morbida abbondanza, / tu, intima amica del sole al suo culmine, / che con lui cospiri per far grevi e benedette d’uva / le viti appese alle gronde di paglia dei tetti, / tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare, / e colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto / (…) chi non ti hai mai vista, immersa nella tua ricchezza?

È l’inizio della meravigliosa ode All’Autunno di Keats. Quando vediamo le giornate accorciarsi, abbassarsi le temperature, pensiamo inevitabilmente a un impoverimento, a un decadimento.

Davanti alle foglie che cadono, come possiamo non pensare alla caducità, che è anche la nostra caducità? Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini, recita la famosa similitudine omerica, e da qui un proliferare di risonanze in tutte le letterature, fino a quella meravigliosa micropoesia di Ungaretti che tutti conosciamo, Soldati, a dire la caducità dei soldati della prima guerra mondiale, e, al tempo stesso, di tutti noi: Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie. Siamo tutti soldati, nella trincea della vita.

Ma qui Keats ci parla, invece, di “ricchezza”. E in effetti, se andiamo a vedere l’etimologia della parola “autunno”, ci accorgiamo che non alla diminuzione, alla povertà rimanda, ma alla ricchezza. “Autunno” viene dal latino “augere”: aumentare, arricchire.

E è sì, certo, la ricchezza della vendemmia, la raccolta dei frutti, la preparazione del vino, la ricchezza del contadino insomma, ma è anche maturazione, ossia non accrescimento e basta, ma un giungere a un colmo, a un compimento. Una maturazione interna, un arricchimento interiore.

Tra l’altro, sempre a proposito dell’aumento, da ricerche scientifiche condotte in America, sembra che i nati in autunno, e specialmente in novembre, abbiano vita più lunga, siano più longevi.

E se le foglie, sì, cadono, è però vero che prima di cadere producono quella “ricchezza” di colori che chiamiamo da qualche tempo, con parola al solito inglese, foliage (abbreviazione di “fall foliage”, cioè “fogliame autunnale”, intendendo il fenomeno e insieme l’osservazione del fenomeno nei boschi). Tra parentesi, è bello che Wikipedia combatta gli anglicismi inutili: se digitate “foliage” compare la voce “fogliame autunnale”, e non l’anglicismo. C’è da dire però che dobbiamo usare due parole e non una.

Il trascolorare di certe foglie dal verde al giallo, all’oro, al rosso, al viola, è dovuto a una serie di fattori chimici che intervengono sulla foglia, per via di una sorta di taglio dei viveri. La pianta non nutre più le foglie, le lascia seccare e cadere; sarebbero, col sopraggiungere della stagione fredda, ostacolo, zavorra. È un sacrificio. Una perdita che è arricchimento.

Il culto del foliage che in Giappone c’è da sempre (si chiama Momijigari) ora è una moda, e imperversano offerte turistiche, festival del foliage e addirittura treni del foliage, ma ben venga una moda se avvicina alla natura, se ci fa camminare nei boschi, se ci avvicina alla terra.

Tra l’altro, tra i quattro elementi classici (aria, acqua, terra e fuoco) nelle simbologie antiche l’autunno corrisponde alla terra.

Keats invece non ci parla di foliage, ma chiude l’ode con una specie di foliage di suoni: le cavallette cantano, e con dolci acuti / il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino: / si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.

di Claudio Damiani