Maria Antonia Samà e Nuccia Tolomeo beatificate a Catanzaro dal cardinale Semeraro

Dolore e redenzione

 Dolore e redenzione  QUO-225
04 ottobre 2021

Vi è un elemento comune che lega le due nuove beate, Maria Antonia Samà e Nuccia Tolomeo, nella loro imitatio Christi: la sofferenza. Lo ha sottolineato il cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, durante la beatificazione delle due laiche, domenica pomeriggio, 3 ottobre, nella basilica dell’Immacolata a Catanzaro. Presiedendo il rito in rappresentanza di Papa Francesco, il porporato ha ricordato che queste donne sono entrate nel dolore in modo diverso, «in forme addirittura inquietanti, la beata Maria Antonia, e con un doloroso sviluppo naturale l’altra». Ambedue «in forma progressiva, in continua crescita sì da diventare, l’una e l’altra, somiglianti a Cristo, vir dolorum et sciens infirmitatem (cfr. Is 53, 3)».

Maria Antonia Samà, ha detto il cardinale, è conosciuta come “la monachella di san Bruno”. Conformandosi in tutto alla divina volontà, amava ripetere: «Tutto per amore di Dio». E accadde che proprio «la sua sofferenza offerta per amore produsse in quanti la conoscevano un potente impulso di carità sicché attorno a lei esplose l’amore». Lei «accoglieva con gioia e umiltà chiunque volesse entrare nella sua casa e d’altra parte l’intero paese si mobilitava per soccorrerla e accudirla». Ci fu così un «meraviglioso scambio di doni e questo perché l’amore fa nascere amore». Il porporato ha poi aggiunto che «un antico assioma dice che la caratteristica propria del bene è di farsi conoscere e di essere comunicato ad altri, gratuitamente, come sua ragion d’essere, senza altro scopo che questo». Il prefetto ha ricordato le parole di san Tommaso d’Aquino Bonum est diffusivum et communicativum sui e ancora: «Ed è per questo che il bene moltiplica la bontà». È quanto si è verificato con la beata che «ebbe da Dio la grazia di vivere tutto come dono, divenendo essa stessa dono per gli altri».

Anche per la beata Gaetana Tolomeo, da tutti conosciuta come “Nuccia”, vi «fu una vita colma di sofferenza, ma pure ricolmata e ricolma d’amore». Segnata come fu «sin dai primi anni di vita da una paralisi progressiva e deformante, per amore di Cristo ella trasformò la sua disabilità in apostolato per la redenzione dell’uomo». Ripetendo: «Ti ringrazio Gesù di avermi crocifissa per amore», divenne ella stessa «un esempio di gratitudine per la vita ricevuta». Era solita ripetere: «Sono Nuccia, una debole creatura in cui si degna operare ogni giorno la Potenza di Dio». In effetti la sua vita terrena «fu ricca non di eventi e opere grandiose, ma di grazia e di adesione totale al volere di Dio nella semplicità quotidiana». Due mesi prima di morire lanciò ai giovani di Sassari questo messaggio: «Ho 60 anni, tutti trascorsi su un letto; il mio corpo è contorto, in tutto devo dipendere dagli altri, ma il mio spirito è rimasto giovane. Il segreto della mia giovinezza e della mia gioia di vivere è Gesù. Alleluia».

A questo proposito, il porporato ha sottolineato che quello che Dio «ha fatto nel capo lo ha fatto anche nelle membra di Lui. È questa la storia della santità: di queste due beate, ma non di loro soltanto». Quella della santità, infatti, «è la storia della forza di Dio nella debolezza umana». Così è stato per la Vergine Maria: «Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente» (Lc 1, 49); così per tutti. La santità, ha aggiunto, è, come insegna Papa Francesco, «proprio l’incontro della debolezza umana con la forza della grazia (cfr. Gaudete et exsultate, n. 34)».

Il cardinale ha anche invitato a riflettere sul brano tratto dalla Lettera agli Ebrei, in cui si dice che «fu reso perfetto per mezzo delle sofferenze». L’autore della Lettera agli Ebrei afferma che Gesù è un «capo che guida alla salvezza»; e aggiunge, quindi, che egli è «colui che santifica» e conclude che lo stesso non si vergogna di chiamarci «fratelli»! C’è un crescendo in questi tre titoli, ha fatto notare il prefetto, «sicché l’uno approfondisce e spiega l’altro». Gesù è per noi «una guida, ma non di quelle che ci danno semplicemente delle indicazioni, bensì uno che ci prende per mano e ci accompagna nel cammino e questo lo fa perché ci vuole bene, ci ama».

Lui, che è «santo e santificatore, non si vergogna della nostra debolezza e nemmeno del nostro essere peccatori». Questa «nostra condizione non lo spinge ad abbandonarci». Diversamente fanno gli uomini, perché quando qualcuno «ci dispiace, o ci delude, o ci offende allora prendiamo le distanze, interrompiamo i contatti, lo cancelliamo dalla nostra agenda». Gesù, al contrario, «prende su di sé la sofferenza e giunge a dare la vita per noi». L’autore della Lettera agli Ebrei annota: «non si vergogna». Infatti, la «vergogna» nel racconto della creazione dell’uomo «nasce col peccato, ma Gesù è l’Innocente, perciò non si vergogna; anzi salva e santifica». Gesù, ha aggiunto il prefetto, «fu reso perfetto per mezzo delle sofferenze». Lo fu certamente perché «la via dolorosa è conseguente al mistero della sua incarnazione: si fece uomo nel grembo della Vergine, diciamo nel simbolo di fede». Qui però il «testo sacro non si limita a dirci che il Figlio di Dio si è fatto uomo; si afferma, anzi, che si è fatto fratello e questo sottolinea la presenza di un valore aggiunto, l’amore di Cristo per noi». Il cardinale ha fatto notare che «tra la sofferenza e la perfezione c’è l’amore. È l’amore che congiunge la sofferenza alla perfezione». Nella prospettiva «di un cammino di educazione e trasformazione» è possibile guardare pure alle due nuove beate.