Un legame unico

02 ottobre 2021

Possiamo chiederci per quali ragioni prima Freud e quindi Lacan interroghino la Scrittura e la Mistica — non senza certe loro interpretazioni artistiche, dal Mosè di Michelangelo, alla santa Teresa del Bernini — dando così prova di cercare un punto di equilibrio tra il godimento che si origina dal basso e la legge che cade dall’alto. C’è tra gli analisti chi, come Maria Teresa Maiocchi, ancora oggi si domanda se la tradizione dei Padri della Chiesa non sia per la psicoanalisi stessa «un passaggio obbligato» per raggiungere nel suo orizzonte la soggettività della nostra epoca.

«Di Agostino si armino anzitutto i miei uditori…» scrive Lacan nel 1965, evocando quella dualità speculare il cui limite immaginario nasconde la faglia che separa l’angoscia dalla vergogna. Non è solo il De Trinitate a venire sistematicamente compulsato da Lacan nel giro di vite che finalmente porta i suoi Seminari prima all’invenzione della topica ternaria «Reale-Simbolico-Immaginario» e quindi alla elaborazione del «nodo borromeo», topologia antica di una struttura quaternaria applicata nella tecnica analitica per la cura delle psicosi. Già nel 1938, con il saggio poi pubblicato nell’Encyclopédie française, «I complessi familiari», Lacan richiama — e lo farà anche in seguito — un passo delle Confessioni — quello del fratellino che guarda livido, torvo, il suo compagno di latte — per dare consistenza alla sua analisi sul rapporto tra gelosia infantile e identificazione.

È un itinerario, quello psicoanalitico, che si snoda lungo le complicate e singolari vie della soggettività dove, attraverso il lavoro di scavo di una catena di significanti — già Anna Freud lo definiva talking cure o anche chimney sweeping — si può scorgere l’aprirsi di un solco nel quale, da una parte la luce della verità e dall’altra la forza del desiderio, gettano il loro seme e lo fanno germogliare.

È del 1964 il seminario «I quattro concetti fondamentali» di quella prassi che fa di un soggetto un analizzante: inconscio, ripetizione, transfert, pulsione. Lacan, scomunicato dal Comitato esecutivo dell’Associazione internazionale di psicoanalisi, punta diritto, “a vele spiegate”, da apologeta, i fondamenti del suo insegnamento e mette in questione il desiderio dell’analista.

Campo enigmatico della soggettività, che trascende la soddisfazione del bisogno e nasconde ciò che la domanda vuol dire al di là di quello che essa formula, il desiderio con i suoi paradossi è un’altra di quelle questioni che legano Lacan ad Agostino. Impossibile non pensare al quarto trattato del Commento alla Lettera di San Giovanni, a quel passo dove il teologo mostra come è attraverso l’attesa di Sé che Dio — Fecisti nos Domine ad Te — dilata, attraverso il desiderio, le facoltà ricettive della psiche. La formula lacaniana del paradosso per il quale «il desiderio è sempre il desiderio dell’Altro» non solo rimanda alla domanda comunque teologica: Che Altro? ma anche apre al tema del tempo come misura di un corpo a suo modo parlante.

La questione sul tempo, infatti per l’analisi si articola su una logica ternaria (l’istante di uno sguardo; l’intervallo di un confronto; il momento di una conclusione) e porta i lacaniani a confrontarsi con il capitolo xi delle Confessioni, là dove Agostino si chiede «il tempo cosa sia». Presenza di un passato che è memoria, di un futuro che è attesa, di un presente che è atto; il tempo scandisce la durata di una seduta che per Lacan è dettata, nella sua brevità, dall’inconscio strutturato come un linguaggio. Il sintomo infatti è per la psico-analisi «metafora», procedimento linguistico della rimozione; è ciò che permette a un significante inconscio, specifico di un soggetto, di venire alla luce: non senza l’interpretazione e in un tempo seco-ndo, Nachträglichkeit come dice Freud, con un senso retroattivo, o in aprés coup come traducono gli analisti francesi.

«Dio è inconscio» afferma Lacan nel febbraio del 1964 alla ripresa del suo seminario impossibile dedicato ai «Nomi-del-Padre» mostrando così di non voler cedere circa il suo desiderio di andare oltre il Mosè di Freud per dare un nome alla voce crepitante del roveto che arde e non si consuma (cfr. Es 3). Proprio come un’analisi che non termina nel suo ripetersi quasi burocratico; proprio come un rito, «un atto sempre ripetuto» e ogni volta rinnovato e generante.

Ancora ultimamente Colette Soler, in un seminario tenuto a Milano dal titolo «Sintomo e legami sociali», richiamando il fatto che per Lacan il modello più antico di un legame destituente identità alienate fosse quello degli «ordini mendicanti», ha ricordato agli analisti che se il transfert è sempre più necessario per fare da contrappeso all’invasione dei gadget, il modello al quale finalmente Lacan li rimanda è quello di ciò che sono stati in ogni tempo nella storia dell’Occidente i santi.

«In più santi si è, più si ride» scrive Lacan, agli inizi degli anni Settanta, in un testo per una trasmissione televisiva. Alludendo a un proverbio francese che associa la quantità dei partecipanti alla qualità del divertimento, lo psicoanalista parigino rilancia così la sfida di una scuola di psicoanalisi dove, nella fedeltà al solco tagliente tracciato da Freud, il soggetto precluso dalla scienza possa fare ritorno per dare così inizio al suo vero esilio, quello verso un gaio sapere e non da solo, ma tra scompagnati, sparsi in una fraternità discreta.

Ci sarà un motivo se tra i più assidui frequentatori dei convegni dell’École freudienne de Paris si ricordano i nomi di gesuiti quali Denis Vasse, Michel de Certau, Paul Beauchamp e quello di Françoise Dolto. Ci sarà una ragione se tra gli autori più celebrati nei Seminari, Dante, con il suo attraversamento poetico più che teorico della teologia, si erige grazie al suo lascito; quello che con Lacan possiamo chiamare oggetto «a piccolo» e che, come afferma la Soler, si pone ancora oggi allo zenith sociale: «Uno sguardo, quello di Beatrice, cioè davvero niente, un battito di palpebre e lo squisito scarto che ne risulta».

di Rossano Gaboardi