Armando Matteo analizza la crisi di fede della generazione adulta

Si dice credente
ma è un Peter Pan

 Si dice   credente ma  è   un   Peter Pan  QUO-221
29 settembre 2021

Quando Wendy Darling, la ragazzina londinese che lo aveva seguito all’Isola che non c’è rimanendo coinvolta in mille avventure, alla fine torna a casa con i due fratelli più piccoli e decide (lei futura mamma) che il suo posto è lì, con la propria famiglia, Peter Pan non le resta accanto. Solo la promessa di rivedersi ogni tanto. Troppo forte il timore — se venisse adottato dai Darling assieme ai Bambini Perduti — di diventare adulto. Meglio tornare all’Isola che non c’è, meglio affrontare la gelosia di Campanellino o battagliare ancora con Capitan Uncino, piuttosto che entrare nel mondo dei grandi. Nella Chiesa cattolica sta forse succedendo come nell’opera teatrale (poi romanzo) di James Matthew Barrie Peter Pan, il ragazzo che non voleva crescere (1904), resa famosa dall’adattamento cinematografico della Disney del 1953? La fascia degli adulti — quarantenni, cinquantenni, sessantenni — colta dalla sindrome ha trovato nel mito dell’eterna giovinezza l’unica “religione” in grado di rispondere alle sue domande di senso, tanto da abbandonare ingloriosamente le chiese, lasciandole semivuote? Vale la pena aspettare Godot, l’indistinto esercito dei cosiddetti “credenti non praticanti” (da tempo in volo con Peter Pan), o, meglio, concentrarsi su una pastorale moderna capace di costruire un cristianesimo nuovo? A chiederselo — nel libro Convertire Peter Pan. Il destino della fede nella società dell’eterna giovinezza (Milano, Àncora Editrice, 2021, pagine 126, euro 13) — è don Armando Matteo, docente di Teologia fondamentale alla Pontificia Università Urbaniana di Roma e sotto-segretario aggiunto della Congregazione per la dottrina della fede. Dalle chiese vuote alle chiese semivuote, poco cambia nella sostanza: il culmine della pandemia di covid-19 è alle spalle ma l’allontanamento forzato ha solo nascosto la disaffezione, il lungo digiuno eucaristico imposto dal lockdown continua e sfocia in una crisi che si trascina da tempo, forse sottovalutata. E a mancare, tra i banchi, è soprattutto la generazione degli adulti.

A originare la riflessione — a riconoscerlo è lo stesso autore — è un recente saggio del filosofo ceco Tomáš Halík, in particolare una sua conclusione: «Forse questo tempo di edifici ecclesiali vuoti mette simbolicamente in luce il vuoto nascosto delle Chiese e il loro possibile futuro se non si compie un serio tentativo per mostrare al mondo un volto del cristianesimo completamente diverso». I luoghi di culto semideserti sono da leggere come segno e sfida provenienti da Dio, come vuoto nascosto ma reale riempito altrove dalla “movida”, dagli aperitivi, dai social, dal calcio, dai trattamenti “anti-age”. Dati alla mano (quelli del 2017 riportati da un testo di Franco Garelli), aumenta in modo preoccupante in Italia la fascia di popolazione dei “senza religione”, raddoppiata negli ultimi venti-venticinque anni. Se il 76 per cento dei cittadini si dichiara “cattolico”, scavando a fondo si scopre che, oltre a parecchi giovani, solo 4,8 su 26 milioni di adulti fra i 35 e i 64 anni partecipano settimanalmente (o più) ai riti religiosi e solo 6 milioni di essi pregano con una certa frequenza. Meglio rispetto alla Francia descritta da Valérie Le Chevalier in Credenti non praticanti — 53 per cento di “cattolici”, solo il 5 per cento a messa la domenica — ma un quadro sufficientemente chiaro per affermare, scrive Matteo, che ci troviamo di fronte anche in Italia a un cambiamento d’epoca, alla stagione della postmodernità abitata dall’adulto 4.0 che, soggiogato dal sentimento di libertà e di unicità (la sua libertà, la sua unicità), può definirsi senza trascendenza, senza verità, senza limiti, senza morale, senza politica. Quest’essere incoerente (ma non verso se stesso), ambivalente per non dire ambiguo, è dominato dall’economia e dal mercato del godimento, alimentato dal sistema pubblicitario e dalla cultura televisiva. Siamo all’adorazione della giovinezza, osserva lo stesso Papa Francesco nell’esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit, come se «tutto ciò che non è giovane risultasse detestabile e caduco» (182).

Davanti a questo nuovo culto, che ha nel corpo giovane il suo simbolo, che guarda il vecchio quasi con disprezzo, occorre una «conversione della mentalità pastorale». Quei “credenti non praticanti” (pur sempre cristiani), quei “cattolici anonimi” vanno salvati, convertiti appunto, non abbandonati. La sindrome che ha stregato gli adulti di oggi va curata, anche per il bene dei giovani di domani. Ma come? Secondo don Armando Matteo, Francesco rappresenta in tal senso un’opzione. E la linea da seguire è quella tracciata dai due discorsi, pronunciati davanti alla Curia romana, del 21 dicembre 2019 e del 21 dicembre 2020. Matteo li ripercorre per evidenziare tre colonne portanti. La prima è «il riconoscimento del nuovo contesto culturale nel quale ci troviamo a vivere»; occorre fare pace con il mondo che è già cambiato; dal tempo dei doveri familiari e sociali siamo passati ormai al tempo del diritto alla libertà simboleggiato dai Peter Pan. La seconda è «l’ammissione senza risentimento della fine della cristianità», mandata in soffitta dall’adulto 4.0; le attuali forme di trasmissione della fede sono ancora quelle dell’epoca dell’iniziazione cristiana, la mentalità pastorale resta incentrata sulla capacità di dare consolazione, di essere «balsamo di speranza e luce» per affrontare una vita «breve e dura»; ma la storia oggi non è più questa. Il terzo passo è appunto «l’accettazione coraggiosa della necessità di un nuovo paradigma pastorale» (è sempre il Pontefice a sollecitarlo in un intervento del 27 novembre 2014), riproponendo Gesù e il suo Vangelo in maniera audace e senza timori e colmando finalmente quel gap di comunicazione tra Chiesa e universo adulto. L’autore del libro individua la chiave nella parola “mitezza” (Matteo, 11, 29). La mitezza dello sguardo di Gesù sugli uomini e le donne del suo tempo, la mitezza come maturità (dal latino mitis, tenero, maturo), ma anche come compassione, prossimità, attenzione, ospitalità, senso di partecipazione al destino altrui, in definitiva un altro stile, quello di Cristo, «più potente della propria potenza», il vero e unico modo di ereditare la terra (Matteo, 5, 5).

Se l’egolatria, il culto del proprio io, l’individualismo — scrive l’autore citando Papa Francesco — è il virus più difficile da sconfiggere, se le «ombre di un mondo chiuso» (elencate una per una nell’enciclica Fratelli tutti) ostacolano lo sviluppo della fraternità universale, occorrono strumenti drastici per riuscire nell’impresa di capovolgere il quadro. Trasformare Peter Pan nel buon samaritano, o quantomeno rammentargli che il farsi prossimo, il prendersi cura, fanno parte di lui; aiutarlo nel passaggio dal mito del giovanilismo alla stagione della maturità/mitezza: per riuscirci, o comunque provarci, Matteo propone alla fine del volume dei suggerimenti concreti, “dieci cose che si possono fare subito”, che partono dall’avvio di una vera stagione di sinodalità da vivere in ogni parrocchia (dove il movimento pastorale sia unico e non frammentato in generazioni, una “pastorale dell’incrocio” insomma, apostolato dell’ascolto che non tenga fuori nessuno) e arrivano a un’altra parola-chiave per imparare a guardare il mondo con gli occhi di Gesù, “gioia”. La gioia come caratteristica della fede, come antidoto, vaccino contro l’individualismo radicale. E se per convertire Peter Pan dalla sua «illusione di un solitario godimento infinito» bastasse svegliarlo e ricordargli che in verità «solo chi ama, solo chi sa rendere felice, solo chi dona», gode?

di Giovanni Zavatta