La storia

Junior, la vita oltre la miniera

 Junior, la vita  oltre la miniera  QUO-215
22 settembre 2021

Quanti anni esatti abbia Junior forse nessuno lo sa. Chi lo conosce bene dice quattordici, ma non ci metterebbe la mano sul fuoco. L’unica certezza è che ora questo ragazzo frequenta il liceo. Ora! La scuola, nel suo passato, non era nemmeno una possibile opzione: semplicemente non esisteva. I suoi genitori sono morti lavorando in miniera ed è rimasto presto orfano insieme al suo fratellino. Una maledizione, quella dell’estrazione dei minerali per la Repubblica Democratica del Congo: non solo ha ucciso sua mamma e suo papà ma lo ha costretto ad andare ad infilarsi nei terreni polverosi e maleodoranti delle miniere per poter sopravvivere. E far campare quei familiari che l’avrebbero dovuto accudire dopo la scomparsa dei suoi genitori ma che, addirittura, abusavano spesso di lui. Quando, stanco dei soprusi, Junior ha deciso di far perdere le proprie tracce nascondendosi negli anfratti bui della città e cibandosi solo di ciò che riusciva a tirare fuori dai bidoni della spazzatura, ecco il miracolo. Nelle povere e polverose strade di Kolwezi, agglomerato urbano di ottocentomila abitanti situato a sud del Paese dell’Africa centrale, ha incrociato le Suore di Nostra Signora della Carità del Buon Pastore che hanno cambiato il destino già segnato della sua vita dandogli cibo, istruzione ed amore. Ma soprattutto togliendolo dalla fatica immane del lavoro in miniera. Già, le miniere. La sola città di Kolwezi rappresenta uno dei centri minerari più importanti della nazione con molte tonnellate di cobalto, rame, uranio e radio estratti ogni anno. È un’economia che porta nelle tasche di intere famiglie solo qualche spicciolo necessario per sopravvivere e alla quale però nessuno ha la forza di rinunciare. Le mamme che lavorano in miniera portano i propri bambini con loro nei siti estrattivi e già all’età di tre anni iniziano ad imparare la differenza tra un minerale e l’altro. Arrivati ai quattro anni, e fino ai sei, girovagano per vendere con gli amici le pietre che hanno raccolto. La catena si chiude quando, un po’ più grandi, entrano a far parte a tutti gli effetti del ciclo produttivo delle miniere, garantendo alla propria famiglia un altro reddito sicuro. Pochi soldi e subito. Ma anche maledetti. Perché chi lavora in quelle miniere prima o poi ci lascia la pelle. Niente protezione per la salute, niente orari umani, niente strumenti per garantire la sicurezza. Non è un’eccezione, dunque, imbattersi in storie come quella di Junior. Anzi, la sua rappresenta la spia di un fenomeno non indagato fino in fondo. Forse colpevolmente. «Non c’è nessuna ricerca ufficiale. Solo l’Unicef, nel 2014, aveva stimato che nelle miniere della provincia del Katanga potessero lavorare 40.000 bambini mentre nella provincia di Lualaba si pensa che i due terzi dei piccoli non siano mai andati a scuola e che il 95 per cento di essi lavorassero nelle miniere», racconta suor Catherine Mutindi, presidente di Bon Pasteur Kolwezi, il programma d’aiuto che la sua congregazione delle Suore di Nostra Signora della Carità del Buon Pastore ha avviato proprio nella città di Kolwezi per strappare soprattutto i bambini e le donne dallo sfruttamento delle miniere. Negli anni, il programma si è rivelato una vera e propria àncora di salvezza per oltre 9.000 persone residenti in otto comunità minerarie della zona. «Il nostro programma — spiega suor Catherine Mutindi — prevede cinque fronti d’intervento. L’educazione, con il sostegno ai bambini per rientrare nel percorso scolastico. La formazione professionale, anche per i soggetti considerati irrecuperabili come le ragazze adolescenti semi-analfabete vittime di abusi e già troppo grandi per essere reinserite nelle scuole. Ed infine la protezione dell’infanzia, il rafforzamento delle comunità locali e la promozione di strumenti di sostentamento diversi dal lavoro minerario come agricoltura, allevamento e piscicoltura». Tutto questo poderoso impegno è sulle spalle di sole sette suore e novanta volontari. «Bisogna però aggiungere che Bon Pasteur Kolwezi è anche finanziato da aziende e organismi internazionali, Conferenza episcopale italiana e Missio Austria in testa», rivela suor Catherine Mutindi. Un dettaglio non di poco conto che mette in evidenza, ancora una volta, che nella Repubblica Democratica del Congo il ruolo della Chiesa ormai è diventato fondamentale. Suor Catherine lo definisce addirittura imprescindibile: «Senza la Chiesa, ad esempio, la sanità e l’istruzione sarebbero totalmente messi in discussione. Però, il problema è che questi servizi sono limitati, sovraccarichi e molto costosi per la maggioranza della popolazione». C’è un sogno che le Suore di Nostra Signora della Carità del Buon Pastore accarezzano da tempo e che, se diventasse realtà, potrebbe infliggere un colpo mortale allo sfruttamento del lavoro nelle miniere. «Il governo — sostengono le suore — e le aziende che operano nella filiera del cobalto, minerale utile nella costruzione delle batterie elettriche, dovrebbero incentivare e sostenere i programmi di sviluppo comunitario e di protezione sociale per spezzare la “maledizione delle risorse” che determina una cronica carenza di investimenti in agricoltura e in altri servizi nelle aree minerarie che si traduce in alti livelli di povertà, assenza di servizi sociali e grave insicurezza alimentare per le comunità locali. Inoltre, si dovrebbero incentivare anche mezzi di sussistenza alternativi all’estrazione mineraria». Un sogno, appunto. Che certamente delle suore tenaci e combattive come loro tenteranno con ogni mezzo di realizzare.

di Federico Piana