Un fatto più che un desiderio

 Un fatto più che un desiderio  QUO-210
16 settembre 2021

Che la fraternità sia la sfida del nostro tempo, il banco di prova di un futuro possibile, sembra un fatto scontato. Ma altrettanto scontato sembra il fatto che qualcosa non funzioni. La fraternità pare destinata a restare un auspicio da mettere accanto a libertà e uguaglianza, senza che ci sia troppa fiducia di poterlo realizzare. Oppure un appello da lasciare alle persone religiose, che ne possono dare testimonianza, o lanciare denunce sulla sua mancanza, come conferma della sua irrealizzabilità. L’aspetto più inquietante sta nel fatto che guardando al futuro non sembra che le cose possano migliorare, ma se mai andare anche peggio. Perché la fraternità sembra non funzionare oggi? Dove sbagliamo? Forse il problema sta, in primo luogo, in un errore di prospettiva. Si pensa alla fraternità come a qualcosa che avevamo e abbiamo perduto. Ma a ben guardare non è così. Può darsi che in altre epoche e in altri contesti sia stato trovato un modo per rendere reale la fraternità. La verità è però che una fraternità per il nostro mondo nessuno la ha ancora mai vista e tanto meno trovata. Nel nostro mondo in mutazione — l’unico tempo che ciascuno, credente o meno, può abitare — anche le forme della fraternità sono mutanti. Questo impone a tutti la sfida inedita di una comunità inedita, per la quale nessuno ha una ricetta già testata.

Già solo questa considerazione potrebbe farci tirare un sospiro di sollievo. Non siamo diventati tutti cattivi negli ultimi cinquant’anni. Non siamo diventati inadatti alla fraternità odierna, semplicemente non lo siamo mai stati. Si tratta semplicemente di una sfida tutta da fare, tutta da inventare e come tale dovrebbe essere affrontata. Nessuno possiede già nel proprio armamentario gli strumenti per vincerla e quindi nessuno può ergersi a facile giudice dei fallimenti altrui. Se riusciremo a essere all’altezza di questo compito incredibile lo saremo solo insieme — da fratelli — e riceveremo l’applauso tacito dei fratelli che ci hanno preceduto, e che hanno affrontato altre sfide, non questa, così come dei fratelli che seguiranno, e che attendono da noi questo contributo specifico.

Un secondo possibile errore potrebbe stare nelle aspettative che abbiamo rispetto alla fraternità stessa. Cosa dobbiamo aspettarci da un mondo fraterno? Per rispondere a questa domanda penso che ciascuno possa guardare a quanto accade nell’orizzonte prossimo della propria famiglia e delle proprie relazioni. Il mondo dei fratelli e delle sorelle non è il mondo della quiete e dell’ordine. Se non si coglie che parlare di fraternità significa parlare di un aumento esponenziale della conflittualità — come la Scrittura testimonia ovunque, da Caino e Abele, a Giacobbe ed Esaù, a Giuseppe e fratelli — è inevitabile che, non appena si comincia a realizzarla, se ne resterà subito spaventati, e si farà retromarcia su posizioni più pacifiche, in cui un potere paterno garantisca maggiore quiete e stabilità. Accettare la sfida della fraternità significa infatti accettare un modo diverso di gestire il potere. Un modo condiviso. A chi viva nella Chiesa cattolica di oggi non può sfuggire come le strutture e le forme di esercizio del potere non siano state pensate secondo logiche fraterne, quanto piuttosto paterne. Queste non sono sbagliate, sono semplicemente diverse. Se ne vogliamo di altre si tratterà di farle, di inventarle e di cambiare quanto abbiamo già. Gli appelli di Papa Francesco alla sinodalità mettono in luce proprio questo, ovvero che abbiamo bisogno, per vivere questo cambio d’epoca, di pensieri, forme e strutture nuove, con tutta la fatica e gli sbandamenti che questo può provocare. Ma è questo, a quanto pare, quello cui siamo chiamati.

Se questa è la sfida di tutti — e le parole della rivoluzione francese o il documento di Abu Dhabi ci dicono esattamente che questa percezione è diffusa ben oltre i confini del mondo cristiano — quale è il contributo specifico che il cristianesimo ha da offrire a questa titanica impresa? Non credo che il contributo cristiano possa consistere nella fondazione della fraternità per tutti. Si tratta di qualcosa che ciascuno dovrà trovare e costruire con gli strumenti della propria tradizione e della propria cultura. Piuttosto il cristianesimo può offrire una testimonianza specifica, ovvero che la fraternità, prima di essere un appello, un auspicio, un precetto, è un fatto. I cristiani credono infatti che l’essere fratelli di tutti non dipenda dal reciproco riconoscimento o dagli sforzi individuali e sociali, ma dal modo stesso in cui è costituita la realtà, degnata dalla presenza di un Dio che è Padre. Per i cristiani la fraternità non è un auspicio morale, ma un fatto teologico, sottratto alla possibilità di chiunque di scegliere. Un po’ come accade in una famiglia, i fratelli non sono un desiderio, sono un dato. Questo potrebbe offrire occhi nuovi, capaci di affrontare questa sfida con maggiore tranquillità e con la curiosità di scoprire tracce di questo fatto fraterno nella realtà che già ci circonda.

In fondo è quanto sta accadendo nell’attuale pandemia. Siamo certamente posti di fronte alla natura rissosa e faticosa della fraternità ma anche, e soprattutto, alla sua evidenza. Se abbiamo un potere, una possibilità, questo è senza dubbio condiviso, nel bene e nel male. Se non si condivide, letteralmente si muore, perché questa è la natura del potere. Per chi ha occhi per vedere emergono chiaramente i segni di come la fraternità più che un appello sia un fatto. Negli sforzi, magari scomposti, di molti — infermieri, medici, operai, impiegati, industriali, istituzioni — si è vista la disponibilità a mettere in gioco il proprio a vantaggio degli altri. I casi di egoismo e regressione, che non dovrebbero stupire chi conosce la vera fraternità, non possono oscurare il fatto fondamentale, che è stato lo sforzo di un’umanità fraterna travolta da una vicenda inattesa.

di Leonardo Paris