
I poveri e i perseguitati: nell’agenda di lunedì pomeriggio Papa Francesco a Bratislava ha voluto un doppio appuntamento direttamente ispirato dal Vangelo delle beatitudini. Dalla periferia al centro cittadino, entrambi sono stati momenti particolarmente significativi della tappa slovacca del 34° viaggio internazionale del Pontefice, che ha visitato dapprima una struttura delle Missionarie della Carità, per abbracciare i senzatetto da essa accolti; poi il luogo dove sorgeva la sinagoga della capitale della Slovacchia, per incontrare la comunità ebraica.
Dalla nunziatura — dove aveva incontrato monsignor Róbert Bezák, arcivescovo emerito di Trnava, con la sua famiglia — il vescovo di Roma ha raggiunto in automobile il Centro Betlemme gestito delle suore di santa Teresa di Calcutta a Petržalka, sconfinato quartiere di parallelepipedi di cemento, che si estende sulla sponda occidentale del Danubio. Il nome rimanda al “prezzemolo” perché un tempo qui c’erano solo prati e orti: poi, durante il regime comunista è divenuto una selva di panelák, pannelli, come gli slovacchi chiamano questi condomini dell’edilizia popolare di stampo sovietico. Ci vivono ben 120 mila persone, più di un quarto dei residenti della capitale, al punto che se fosse una città autonoma, Petržalka sarebbe la terza del Paese dopo la capitale e Košice: uno tra i maggiori sobborghi costruiti dall’utopia del socialismo reale, che è sempre stato e resta una zona di frontiera, una di quelle periferie che stanno tanto a cuore a Francesco. Proprio qui il suo predecessore Giovanni Paolo ii nel 2003 beatificò due martiri di quell’ideologia: suor Zdenka Schelingova e il vescovo greco-cattolico Vasil’ Hopko.
Oggi Petržalka sperimenta importanti trasformazioni sociali e urbane, grazie agli stessi residenti, che a partire dal 1989 si organizzarono per migliorarne la vivibilità e l’estetica anzitutto pitturando a tinte vivaci le grigie facciate degli edifici; un contemporaneo potenziamento dei servizi e di trasporti e la riqualificazione dei tanti spazi verdi già presenti hanno completato l’opera di restyling. Ed è qui che da oltre vent’anni, le religiose di santa Teresa di Calcutta si prendono cura di senzatetto, indigenti, persone bisognose d’aiuto e soprattutto ammalati. In un’ex scuola incastrata fra i palazzoni, un piccolo fabbricato su due livelli che ha gli stessi colori del loro sari bianco bordato d’azzurro, le suore offrono un letto, un pasto, servizi igienici e indumenti a chi ne ha necessità. Al piano superiore una stanza è riservata ai lungodegenti e ai malati gravi, proprio accanto alla cappella intitolata al Cuore Immacolato di Maria. È dalla forza della preghiera infatti che le suore attingono l’energia per rimboccarsi le maniche dell’abito e assicurare assistenza sia a quanti bussano alla loro porta, sia a quanti vanno letteralmente a “raccogliere” in mezzo alla strada, fin nei boschi sui monti circostanti. Le ispira l’esempio della fondatrice, i cui ritratti che per didascalia hanno i suoi insegnamenti, si trovano appesi alle pareti degli ambienti visitati dal Papa al pianterreno: il saloncino, il piccolo ambulatorio, il dormitorio con spazi comuni.
Il centro rientra nel territorio della parrocchia della Sacra Famiglia, affidata a un sacerdote, Juray Vittek, che sta cercando di avviare una comunità religiosa sul modello degli oratori di san Filippo Neri. C’era anche lui all’appuntamento con Francesco: insieme con i volontari laici che collaborano con le suore e gli altri preti che vengono regolarmente a dare una mano, era tra quanti nel giardino hanno offerto una festosa accoglienza, sottolineata dai gioiosi canti dei bambini e dalle simpatiche coreografie che li accompagnavano. Ispirata alla tradizione indiana, invece, quella delle suore, che hanno messo una collana di fiori azzurri al collo di Francesco.
Accompagnato dalle sei missionarie della comunità, alle quali si sono unite le consorelle di un’altra casa di madre Teresa qui in Slovacchia, negli ambienti interni il Pontefice si è soffermato a lungo con gli ospiti presenti lontano dai
flash e dalle telecamere. Una trentina di persone in tutto — che sono più o meno quelle abitualmente assistite nella struttura —: alcune ammalate, altre con disabilità, altre ancora che a loro volta aiutano chi si trova in stato di necessità. Al termine, il Papa ha recitato l’Ave Maria con i presenti e nel congedarsi ha consegnato in dono alla superiora, la polacca suor Ida, un quadro in ceramica raffigurante la Vergine Maria con Bambino, detta anche Madonna dell’Uva per l’insolita iconografia ispirata da un’opera di Pierre Mignard, a sua volta riconducibile a un’opera del 1426 di Masaccio.
Da parte loro le suore hanno ricambiato assicurando quanto dipinto a grandi caratteri, in slovacco e in italiano, sulla parete esterna, dove campeggiava anche il ritratto dell’atteso ospite: «Non dimentichiamo di pregare per lei». Una frase in perfetta sintonia con quanto scritto da Francesco sul libro d’onore del Centro Betlemme: «Ringrazio le suore per la loro testimonianza. Ringrazio le persone che collaborano. Prego per voi, per favore fatelo per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca».
Molto toccante anche il momento successivo a Rybné námestie, nel cuore della città vecchia, vicino alla cattedrale gotica di San Martino, conosciuta anche come “tempio dell’Incoronazione” dei sovrani ungheresi negli anni dal 1563 al 1830. Qui sorgeva anche la sinagoga Neolog, demolita nel 1969 dal governo comunista, insieme all’intero ghetto ebraico, per far posto a un ponte sul Danubio. Oggi, nella piazza, la ricorda il “Memoriale dell’olocausto”: un muro nero su cui è riprodotta la sagoma dell’antico tempio, davanti al quale si eleva una scultura astratta in bronzo alta 5 metri, con sulla sommità una stella di David. Poggia su una piattaforma di granito con incise le parole Zachor, in ebraico e Pamätaj in slovacco che significano: “Ricorda!”. Un monito e un’esortazione a non dimenticare le decine di migliaia di ebrei di questo Paese uccisi nella Shoah. Molti di essi vivevano a Bratislava nel 1940, soltanto circa 3.500 sono sopravvissuti. E quelli che riuscirono a tornare hanno incontrato indifferenza e ostilità, che solo con i cambiamenti politici successivi alla caduta del comunismo e il clima di ritrovata libertà hanno permesso di stemperare.
Qui il 9 settembre si celebra una Giornata della memoria per le vittime della shoah e delle violenze razziali, per questo sono ancora visibili alcune ghirlande floreali deposte solo quattro giorni fa per la cerimonia di quest’anno.
Giuntovi in automobile, il Papa è stato accolto dal presidente dell’Unione centrale delle comunità religiose ebraiche della Repubblica Slovacca (Uzzno), che gli ha rivolto un saluto. Indossate le cuffie per la traduzione, Francesco ha quindi ascoltato commosso le tragiche testimonianze di un anziano scampato ai lager, il professor Tomáš Lang, e di suor Samuela, delle Orsoline, ordine religioso molto attivo nel salvare bambini e donne ebree dalla furia omicida nazista.
Nel suo discorso il vescovo di Roma ha citato il celebre rabbino riformatore Chatam Sofer (1762-1839) e ha fatto riferimento alle festività del capodanno ebraico dei giorni scorsi. «Qui ogni anno venite ad accendere la prima luce sul candelabro della Chanukia — ha detto —. Così, nell’oscurità, appare il messaggio che non sono la distruzione e la morte ad avere l’ultima parola, ma il rinnovamento e la vita. E se la sinagoga... è stata demolita, la comunità è ancora... viva e aperta al dialogo». E in questo spirito di unità ha lasciato in dono un piatto di ceramica su cui è raffigurata la statua del principe degli Apostoli che si trova in piazza San Pietro: è un dono particolarmente evocativo perché si tratta di un “fangotto” anticamente utilizzato a tavola dalle famiglie siciliane come piatto unico, “in condivisione”.
Al termine Francesco e il presidente dell’Uzzno hanno acceso delle candele offerte da bambini, deponendole in silenzio ai piedi del monumento in memoria delle vittime dell’olocausto, mentre il rabbino Juray Stern ha recitato il Kaddish, antica preghiera di lutto scritta in aramaico. Subito dopo un cantore ha intonato El male rachamim, anche in questo caso un canto di lutto, nel quale sono stati inseriti i nomi dei campi di sterminio di Auschwitz, Mathausen, Treblinka, e dei Giusti delle Nazioni che hanno aiutato gli ebrei.
dal nostro inviato
Gianluca Biccini