Davanti alla tentazione della paura e della chiusura

La fatica e il rischio della libertà

 La fatica  e il rischio della libertà  QUO-208
14 settembre 2021

La libertà è faticosa, per questo l’uomo cade nella tentazione di evitarla, di preferire una condizione di schiavitù che sia però alla fine più comoda. Nella prima parte del viaggio del Papa in Slovacchia il tema della libertà è stato un filo rosso che ha attraversato i diversi eventi e discorsi in questa “terra di mezzo” che spesso nella sua lunga storia ha conosciuto prove difficili e lunghi periodi di oppressione. Parlando prima alle comunità religiose, poi alle autorità civili e di nuovo a tutto il clero raccolto nella cattedrale di San Martino il Papa ha ricordato la tentazione sempre presente nel cuore dell’uomo del rifiuto della libertà, della “scorciatoia” della schiavitù attraverso il consegnarsi ad un potere accentratore o pensiero unico che appunto “pensi a tutto”, soddisfacendo al minimo i bisogni dei cittadini.

È «ciò da cui metteva in guardia Dostoevskij in un racconto celebre, La leggenda del Grande Inquisitore» ha ricordato il Papa: il grande dono che Dio ha fatto all’uomo, la libertà, viene contestato e gentilmente restituito al mittente, l’uomo non sa che farsene della libertà perché è troppo impegnativa, richiede lo sforzo di costruire da soli la propria vita e felicità. Meglio essere accontentati con «pane e poco altro».

È la tentazione che già aveva attanagliato il popolo di Israele nel libro dell’Esodo quando viene liberato dall’Egitto ma che, di fronte alla sfida di attraversare il deserto, rimpiange quella condizione (per cui prima si lamentava e pregava) e arriva ad avere nostalgia delle “cipolle d’Egitto”. Al Signore che libera con braccio potente, l’uomo risponde chiedendo un altro tipo di “potere”, molto più misero e basso, non all’altezza della libertà, ma a misura dei propri bisogni primari. «Le sicure cipolle d’Egitto sono più comode delle incognite del deserto» ha affermato il Papa nel suo intenso discorso in cattedrale, sottolineando come questi sono rischi molto presenti anche nella Chiesa: «Meglio avere tutte le cose predefinite, le leggi da osservare, la sicurezza e l’uniformità, piuttosto che essere cristiani responsabili e adulti […] nella vita spirituale ed ecclesiale c’è la tentazione di cercare una falsa pace che ci lascia tranquilli, invece del fuoco del Vangelo che ci inquieta e ci trasforma […] una Chiesa che non lascia spazio all’avventura della libertà, anche nella vita spirituale, rischia di diventare un luogo rigido e chiuso».

Il Papa invece scommette sull’anelito di libertà, sul desiderio di avventura che si cela nel cuore dell’uomo, conosce bene questo paradossale e ambivalente approccio, di voglia e di paura, che ogni uomo ha di fronte alla libertà. Il poeta americano Lee Masters ha espresso efficacemente questo paradosso quando ha cantato la «fame di un significato nella vita» proprio di ogni uomo e quindi la decisione che questo desiderio spinge contro ogni pur legittima paura: «E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino, / dovunque spingano la barca» e dunque rischiare, perché «una vita senza senso è la tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio. / È una barca che anela al mare eppure lo teme».

Vivere come una barca chiusa in un porto, un luogo rigido e chiuso, è il rischio che oggi si corre, se si cede al pensiero unico del consumismo che conduce ad una vita «nella stanchezza e nella frustrazione» ha detto il Papa lunedì mattina parlando alle autorità del Paese, «stressati da ritmi di vita frenetici e senza trovare dove attingere motivazioni e speranza», ma ha indicato una via d’uscita: «L’ingrediente mancante è la cura per gli altri. Sentirsi responsabili per qualcuno dà gusto alla vita e permette di scoprire che quanto diamo è in realtà un dono che facciamo a noi stessi».

Un altro poeta, il sudamericano Borges, ricorda che «colui che dona non si priva di ciò che dona» e anche gli interlocutori del Santo Padre hanno sottolineato questo spirito di apertura all’altro: la presidente della Slovacchia, Zuzana Čaputová, ha affermato che «tutto ciò di cui abbiamo davvero bisogno è lo spirito di umanità, il rendersi conto, guardando uno qualsiasi di noi, che tu sei me e io sono te, che siamo un tutt’uno» e Ivan El’ko, presidente del Consiglio ecumenico parlando del rapporto tra le diverse religioni ha concluso che «nel bene e nel progresso dell’uno è nascosto anche il bene e il progresso degli altri». C’è un bene nascosto, che richiede uno sguardo poetico, cioè non superficiale, che permetta quindi all’uomo di evitare facili scorciatoie (chiedere libertà ma scartando la responsabilità) e vivere in pienezza all’altezza della propria dignità.

È un discorso questo molto forte, controcorrente, che si scontra appunto con il pensiero unico oggi dominante, non solo in Occidente. Pensiamo alla ormai nota espressione per cui “la mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro”, oggi diffusissima, anche tra le giovani generazioni. È un’affermazione che può generare molti equivoci e indurre a quelle “scorciatoie” nel segno dell’egoismo e dell’indifferenza, un “mantra” che andrebbe rovesciato nell’orizzonte dell’amore che solo può liberare un’esistenza umana, per cui la mia libertà non finisce ma inizia insieme a quella dell’altro, nell’incontro con l’altro che mi responsabilizza e quindi, veramente, mi libera.

Una società costruita invece su quella premessa rischia di essere un mondo freddo, fatto di monadi, a cui manca la vera libertà che è questo cammino faticoso attraverso il deserto per uscire da se stessi, un cammino che senza quell’ingrediente fondamentale, la cura degli altri, rischia di essere un insipido e alla fine tragico girare a vuoto intorno a se stessi.

di Andrea Monda