Bailamme

Il pozzo di dolore delle donne afghane

10 settembre 2021

Penso alle donne afghane, umiliate da neri tendaggi, costrette a nascondere volto, lacrime e sorrisi. Penso alle bambine e ragazze di Kabul, abituate ad andare a scuola, a sognare un futuro non sottoposto a leggi ataviche e disumane, che sgomente si ritrovano ghettizzate, piegate, sole; alle studentesse universitarie, mortificate da un tendone che copre le loro supposte vergogne, negate allo sguardo dei loro amici; alle ragazze che sognavano un’Olimpiade, o anche solo di distrarsi con lo sport nazionale, il cricket; alle giornaliste malmenate e costrette a vedere le frustate e le botte dei loro colleghi; e alle donne di Herat, così coraggiose da manifestare contro chi imbraccia i kalashnikov, e le disprezza, immaginando con ferocia come farle tacere.

Ci sono ragazze anche nell’esercito abbandonato da noi, da tutti, di Massoud, rintanate nella valle del Panshir, e combattono contro ogni speranza. Mi chiedo se la loro guerra sia ingiusta a prescindere, o non ci siano nobili ragioni, piuttosto che arrendersi e trattare con chi non ha mai mostrato clemenza e pietà.

Vedo in rari filmati donne che si trascinano faticosamente nella polvere, e immagino i loro lineamenti induriti dalla fatica e dalla rassegnazione, la loro vecchiaia ripiombata nella segregazione vissuta da giovani, perché vent’anni di respiro di libertà hanno lasciato il segno.

Che merito abbiamo noi, liberi di studiare, ridere, cantare, ballare, esprimerci con la parola in consessi democratici. E che significato può avere la sopportazione, l’eroica ricerca di un bene in condizioni terribili, che mai sono state scelte?

La presa della capitale afghana data il 15 agosto, un mese fa, la festa di Maria. Un nome che conoscono appena, raccontata dal Corano, le donne islamiche. Un nome ignoto, per le ragazze di altre fedi che non hanno potuto conoscerla. Se il tutto non è caso, il suo sguardo dev’essere per loro, nostro rimorso e tormento, nostra vergogna, per le promesse mancate. Se il tutto non è follia, il sacrificio di queste donne non sarà vano, e sarà custodito e premiato, un giorno. Se Gesù Cristo è per tutti, abbiamo il dovere di pregare, tener viva la ferita del loro strazio, per il loro e nostro bene. Il pozzo del loro dolore rivelerà una sorgente.

Mi torna in mente la parola chiara, netta di Alba de Cespedes, in un dialogo con Natalia Ginzburg, sulla rivista «Mercurio»: «Io credo che questi pozzi siano la nostra forza, la forza di noi donne. Poiché ogni volta che cadiamo in un pozzo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano, e nel riaffiorare portiamo in noi esperienze tali che ci permettono tutto quello che gli uomini — i quali non cadono mai nel pozzo — non comprenderanno mai». Parrebbe una rivendicazione femminista: è invece la coscienza data dall’esperienza del mistero, del segreto, delle viscere capaci di partorire alla luce. Dev’essere così anche per te, ragazza sperduta di Kabul, saprai generare fiori.

di Monica Mondo