Cosa resta?

(FILES) In this file photo taken on September 10, 2001, the rubble of the twin towers of the World ...
10 settembre 2021

Cosa resta vent’anni dopo dell’attentato più sanguinoso della storia? Innanzitutto un immenso senso di perdita. In quelle ore terribili dell’11 settembre 2001 sono state recise le vite di tremila persone. Madri, padri, figli, amici sono stati strappati per sempre all’abbraccio delle loro persone care. Vite spezzate da una follia omicida che ha reso reale qualcosa fino ad allora inimmaginabile: trasformare aerei di linea in missili per seminare morte e distruzione. In questi vent’anni da quella tragica mattina sulla Costa Est degli Stati Uniti, giovani sono cresciuti orfani e genitori continuano a piangere i propri figli che non sono più tornati a casa. A colpire, oggi come allora, nello scorrere il nome delle vittime sono le nazionalità — oltre 70 — a cui appartengono. Un attacco dunque agli Stati Uniti ma al tempo stesso al mondo, all’umanità tutta. Così fu sentito in quelle ore concitate e forse ancor più nei giorni successivi man mano che si precisava l’ampiezza immane della tragedia. Never Forget, “Mai dimenticare” è il monito che oggi campeggia al Memoriale di Ground Zero. Due parole che sono state ripetute infinite volte in questi vent’anni a rimarcare che la memoria non può, non deve venire meno quando il dolore è così grande.

Di quel giorno resta anche indelebile il senso del sacrificio, la testimonianza di chi ha dato la propria vita per salvare quella altrui. Fa impressione pensare che un decimo di tutte le vittime dell’11 settembre siano vigili del fuoco. A New York, un’intera generazione di firefighters ha trovato la morte quel giorno. Ha trovato la morte per salvare vite. Loro salivano le scale delle Twin Towers mentre la gente scendeva in modo disperato. Sapevano a cosa andavano incontro, salendo quelle scale piene di detriti e avvolte dal fumo, ma non si sono fermati. Sapevano che solo il loro coraggio, solamente il loro sacrificio avrebbe potuto salvare chi era rimasto intrappolato nei grattacieli sventrati dagli aerei. Se il bilancio già tragico dei morti non ha assunto una dimensione ancora più catastrofica è grazie a loro, a quei vigili del fuoco e agli altri soccorritori che hanno incarnato la forza del bene davanti allo scatenamento del male.

Eredità amara dell’11 settembre 2001, e questa a livello globale, è il senso di insicurezza e paura con cui oggi ci si è, in qualche modo, abituati a convivere. Prendere un aereo non è più una “cosa normale” da quel giorno in poi. D’altro canto, gli attentati terroristici di matrice islamista, che sono seguiti a quello spaventoso del 2001 ad opera di Al Qaeda, hanno dato man forte ai teorici dello “scontro di civiltà”. Sono cresciuti in questo ventennio movimenti xenofobi e anti-migratori, effetto collaterale di una instabilità che era proprio tra gli obiettivi di chi ha portato l’attacco al cuore degli Stati Uniti. Purtroppo, come emerso tragicamente in queste ultime settimane in Afghanistan, l’America e l’Occidente non hanno saputo offrire una strategia all’altezza della sfida epocale posta dagli ideologi del terrorismo globale. Vent’anni dopo l’11 settembre, i talebani — che avevano dato rifugio a Osama Bin Laden — sono di nuovo al potere a Kabul e il sedicente stato islamico (Is) è tornato a colpire in un lugubre e, per molti aspetti, surreale remake. Oggi sono dunque ben più gli interrogativi che i nodi sciolti sul futuro, mentre sono altissimi i costi, innanzitutto in vite umane, della reazione a quegli attacchi terrificanti.

Cosa resta dunque dell’11 settembre? A vent’anni di distanza, ancora ricordiamo il motto United We Stand, “Uniti stiamo in piedi”, che divenne, anche visivamente attraverso bandiere e cartelloni issati nelle strade di Manhattan, la risposta spontanea dei cittadini di New York all’orrore vissuto l’11 settembre. Negli anni, quel motto ha assunto un significato sempre più ampio e profondo. Stare in piedi insieme nonostante i tentativi di “buttare giù” la nostra comune umanità. Oggi quell’appello all’unità, alla “fraternità umana” — come ci ricorda instancabilmente Papa Francesco — diventa l’unica “strategia” vincente. Una strategia che richiede lungimiranza, coraggio e pazienza nella convinzione, come Giovanni Paolo ii sottolineò subito dopo gli attentati, che «se anche la forza delle tenebre sembra prevalere, il credente sa che il male e la morte non hanno l’ultima parola».

di Alessandro Gisotti