La vita «sempre di corsa» di don Fabiano prete di montagna

 La vita «sempre di corsa»  di don Fabiano prete di montagna  QUO-204
09 settembre 2021

Un parroco alla guida di più parrocchie, in contemporanea, è una scelta sempre più obbligata nelle diocesi dove i vescovi non riescono più a nominare almeno un sacerdote residente per ogni comunità, perché la scarsità di vocazioni e l’età media del clero sempre più elevata riducono le forze a disposizione. Le parole del Vangelo «la messe è molta, ma gli operai sono pochi» ancora una volta si confermano profetiche e se quest’esperienza comincia ad affacciarsi anche nelle città, è invece abituale già da anni in luoghi più lontani, come in montagna, dove i sacerdoti a disposizione sono decisamente pochi. Don Fabiano Del Favero, 38 anni, originario di Nebbiù, frazione del comune di Pieve di Cadore, è stato ordinato nel 2009 e oggi regge cinque parrocchie dell’Agordino, in provincia di Belluno: Rivamonte (dove risiede), Tiser e Gosaldo, dal 2013, cui tre anni dopo si sono aggiunte Frassenè e Voltago. In tutto 1.700 anime, distribuite in 64 frazioni. Dieci, le chiese da seguire.

Il sacerdote è anche vicario foraneo e lo scorso anno, per qualche mese, ha retto le parrocchie di Colle Santa Lucia, Selva di Cadore e Pescul in attesa della nomina del nuovo parroco dopo la scomparsa del precedente.

Qui su, la vita non è facile. «In 50 anni questi paesi hanno perso i due terzi della popolazione», racconta don Fabiano con il quale ci incontriamo in un pomeriggio uggioso di fine estate nella fredda canonica di Gosaldo (bisogna già accendere la stufa a pellet), dove non c’è più un parroco residente dal lontanissimo 1996. Fuori, per le strade, non si vede quasi nessuno in questo che è il comune con la popolazione più vecchia dell’intera provincia bellunese.

I numeri di questa vallata sono impietosi. Pochissime le nascite, moltissimi i decessi. «Ogni anno abbiamo una quarantina di funerali mentre i battesimi si contano sulle dita di una mano — spiega don Fabiano —. I giovani, per lo più, se ne vanno: preferiscono andare a lavorare in fabbrica, in città, piuttosto che tramandare gli antichi mestieri dei nonni e genitori, come fare il boscaiolo o il contadino. Mancano pure le professionalità artigiane, tipo l’idraulico o l’elettricista».

Questo giovane sacerdote, dalla carica dirompente e contagiosa, è il segno di una Chiesa viva che non si arrende ai problemi della montagna con poche attrazioni e non frequentata da vip: calo demografico, spopolamento, mancanza di servizi, difficoltà di lavoro. Ogni giorno corre da una parte all’altra, macinando in media 250 chilometri a settimana con la sua auto a quattro ruote motrici: una Messa di qua, una benedizione di là; l’incontro con i giovani a quest’ora, la visita a un malato a quell’altra. E via così, fino a sera. «Arrivo anche molto stanco, ma mai stufo. Ringrazio il Signore per queste comunità. Mi sento molto ben voluto. Faccio la benedizione delle famiglie ed è sempre come se fossi a casa. In questi anni mi sono convinto che in montagna deve starci un prete di montagna, perché sa capire al volo le esigenze di chi la abita e sa parlare la sua stessa lingua».

La collaborazione tra parrocchie vicine tesse nuovi legami e rinsalda quelli già esistenti. Il sacerdote celebra una Messa vespertina il sabato e quattro Messe festive la domenica, più una feriale tutti i giorni a rotazione, raggiungendo tutte le parrocchie che gli sono affidate. «Vado sempre di corsa. Questo ha i suoi pro e contro: se da un lato riesco a raggiungere tutti, dall’altro può esserci qualche fatica nel coltivare i rapporti umani, se il tempo è poco — osserva don Fabiano — Il mio desiderio è di aiutare questa gente ad aprire gli orizzonti, a recuperare l’ottimismo per il domani. Oltre ai problemi che tutti conosciamo, un durissimo colpo per queste comunità è stata l’alluvione del 4 novembre 1966. Molti, poi, se ne sono andati senza più tornare. Tra chi è rimasto sembra prevalere la rassegnazione: l’espressione più gettonata che colgo, parlando con le persone, soprattutto i più anziani, è “tanto ormai”. Io vorrei che diventasse “sogno”, così da guardare al futuro con più fiducia. Non tutto è perduto e ci sono tante potenzialità da sviluppare. La ricetta per ripartire? Per noi cristiani è scritta nel Vangelo, che ci invita ad avere uno sguardo altro».

Le cinque parrocchie dell’Agordino hanno unificato la vita liturgica: comune è l’attività di catechismo dei bambini e i campiscuola estivi; comunioni e cresime vengono celebrate assieme; lo stesso bollettino parrocchiale è unico ed è specchio anche della vita sociale di queste terre, sostenendo lo scambio reciproco di informazioni e di attività da condividere. «In questa situazione i laici sono fondamentali, anche solo per tenere aperte le chiese così da poterci andare a pregare — sottolinea don Fabiano —. Unire le forze non è un ripiego, ma un’opportunità di crescita: non si annullano le identità, ma le si mette insieme valorizzandone le specificità. Così diventa un dono reciproco! Sono molto contento della partecipazione della gente alla vita comunitaria di questi luoghi e penso che la nostra comunità cristiana stia dando una bella testimonianza di fede, nonostante tutto».

ll problema, evidentemente, è anche di natura politica. Don Fabiano non ha dubbi: «Servono molte meno parole e più fatti. La montagna, per conoscerla, bisogna vederla e viverla, non parlare tanto per fare. Chiediamo politiche di rilancio della residenzialità, dell’occupazione, dell’aggregazione, che siano effettive. È inaccettabile, solo per fare l’esempio più eclatante, che la strada della Valle del Mis quest’inverno sia rimasta chiusa per sette mesi, perché il maltempo l’aveva dissestata, isolando località e persone!».

Una gemma di rinnovata speranza è l’arrivo di qualche famiglia giovane o di qualche giovane, trasferitisi tra i monti magari anche lasciando la città per allontanarsi dallo stress di una quotidianità che obbedisce solo alle leggi della produttività e all’efficientismo. Per restare a Gosaldo, la farmacia alla Madonna delle Nevi tre anni fa è stata rilevata dai coniugi Galatone di Taranto, che per sé e i loro figli hanno preferito l’aria delle Dolomiti a quella dell’Ilva. «Esorto i nostri ragazzi a non aver paura di mettere su casa in questi luoghi — conclude don Fabiano —. Qui potranno trovare radici genuine e affetto. La loro famiglia diventerà la famiglia di tutta la comunità. Potremo impegnarci per non arrenderci al declino e, anzi, per costruire un futuro nuovo, assieme, camminando sulle orme di Cristo».

di Alvise Sperandio