Una teologia “immaginale”

 Una teologia  “immaginale”  QUO-198
02 settembre 2021

La “fraternità intellettuale”, invocata da dieci teologhe e teologi nel loro appello Salviamo la fraternità - Insieme, è l’idea intelligente di un percorso che esige un rinnovamento della teologia scientifica. Avere un’idea è però una cosa, farla diventare un progetto, o meglio, un processo, nel quale accada un cambiamento effettivo di modi di pensare, di categorie concettuali, di criteri interpretativi della realtà da aggiornare, è ben altra cosa. Qui occorre la fatica del pensare e del “pensare insieme”, che è ancora più faticoso. “Pensare insieme”, per tanti motivi e per certi aspetti, risulta quasi impossibile. Quando, con l’Enciclopedia, gli illuministi francesi sferrarono un attacco potente contro la religione (cattolica), Rosmini — è annotato nel suo Diario della carità — stendeva un regolamento per una “società degli amici”, con lo scopo fondamentale di «rendere gli uomini amatori della religione cattolica, e desiderosi di promuoverla per mezzo di essa stessa Società». Il materialismo e l’ateismo imperversavano, allora come oggi. Era dunque impellente qualche nuova idea per promuovere la fede religiosa, al fine di dare una direzione morale e un orientamento delle coscienze, in particolare alle giovani menti. Rosmini si rivolse ad amici, come il Manzoni. Quell’impresa di “amicizia intellettuale” restò solo una bella idea, per altro tuttavia paradigmatica, perché “disegnava” con una nuova immaginazione la possibilità/necessità della “carità intellettuale” quale via per un’adeguata apologia della fede cristiana.

La “carità intellettuale” è un’operazione teologica che può essere concepita come «pazienza intellettuale della carità» (Marie-Dominique Chenu) e traccia il vero compito — quello più difficile e poco praticato — per il rinnovamento odierno della teologia scientifica, a beneficio dell’insistita conversione pastorale delle parrocchie e della conversione missionaria della Chiesa tutta, secondo le linee molto concrete della Evangelii gaudium. «Dare da mangiare all’affamato», nutrire il suo corpo perché non muoia di fame è indispensabile, oggi come ieri. Dare quel «pane che nutre la mente» per scaldare i cuori e «sognare a occhi aperti» (Ernst Bloch), per avere visioni nuove, utopie dischiudenti un futuro più giusto e solidale, è carità intellettuale della quale non smettiamo di avere bisogno, per non finire come i profeti di sventura (Pierangelo Sequeri).

Non c’è chi non veda — almeno che non sia del tutto accecato, come il secondo Edipo — che una “Chiesa in uscita” (insieme a tutte le altre metafore che abbelliscono i sermoni dei predicatori, con l’avvento di Papa Francesco: “pastori in odore di pecore”, “sto alla porta e busso, dal di dentro voglio uscire”, così come “il tempo è superiore allo spazio”) implica anche una “teologia in uscita e missionaria”, una “teologia per la strada e del suo vissuto”. È una teologia popolare perché si interessa degli uomini (e non tanto degli angeli), dentro i drammi quotidiani dell’umano esistere (e non tanto dentro i sentieri interrotti delle essenze antropologiche), affrontando le questioni globali imposte dalla condizione disgraziata dell’umano nelle società dell’ipermercato e del consumo planetario, prima causa del fenomeno migratorio incontrollabile, del riscaldamento globale della Terra e dei cambiamenti climatici.

Una teologia che si interessi davvero di “Dio” e abbia a cuore i veri interessi di Dio (perché teologia secondo l’etimo è “scienza di/su Dio”) deve aggiornare il suo linguaggio nel bel mezzo delle “dottrine”, guadagnate con l’evoluzione dogmatica del xx secolo, ben circoscritta nei nuovi manuali di teologia sistematica dopo il concilio Vaticano ii . È un filone di rinnovamento che sembra stia esaurendosi, se non lo è già del tutto. Rischia per altro di mortificare le sue preziose acquisizioni, se non ci si organizza in “fraternità intellettuale”, anzitutto tra teologi (poi via via con tutti gli uomini di buona volontà), per osare di più nell’ambito della comunicazione. In gioco c’è, infatti, l’umano-che-è-comune a tutti, quella umanità aperta al baratro della sua eliminazione, nelle tante forme della barbarie, rese possibili da questi tempi di “coscienza infranta”, di “passioni tristi”, di liquidità generalizzata (Zygmunt Bauman).

Sicuramente per la teologia cristiana — la cui ragione teologica si lascia istruire dalla verità di Dio in Cristo — il problema di Dio e della sua esistenza è la questione dell’uomo e dell’insistenza di Dio per la sua salvezza, dall’inizio (l’origine della creazione) alla fine (l’eschaton della sua pace). Perciò la teologia dovrebbe osare di più nell’aggiornamento del suo linguaggio critico, abitando meglio la controintuitività — praticata a esempio nella scienza di maggior successo oggi che è la meccanica quantistica — soprattutto rispetto a certe espressioni della predicazione cristiana nella quale, quasi per eterogenesi dei fini, non si fa altro che parlare male di Dio, esponendolo al ludibrio dei suoi denigratori.

Propongo un esempio: affermare che “Dio non esiste” (rendendo compagno di strada di un percorso di riflessione lo stesso “ateismo pensoso”, e professando così una sorta di paradossale “ateismo teologico”) non dovrebbe essere più improbabile e nessuno potrebbe rischiare il rogo o la scomunica per questo. La tradizione cattolica ha riferimenti importanti allo scopo. Anselmo d’Aosta nel Proslogion propone di “Dio” un concetto limite (Id quo maius cogitari nequit, “ciò di cui non si può pensare più grande”) che impone di negare ogni rappresentazione (la Vorstellung di Hegel) di Dio dentro un concetto, secondo tutta la tradizione apofatica della teologia. Nella nostra immaginazione, lavoriamo un po’ tutti con il “Dio estrinseco” del nominalismo. Eppure “Costui” non è il Dio della tradizione ebraico-cristiana, il quale si dice più come “evento” e non come “sostanza”.

Gesù ha parlato di Dio-agape, solo e sempre amore. Ha raccontato di Lui, dicendoci dell’avvento del suo regno. Cos’è il regno di Dio, se non ciò che accade tra gli esseri umani quando è Dio a regnare? Volendo soddisfare il suo compito di comunicazione a vantaggio dell’evangelizzazione e della predicazione cristiana, la teologia sarà nel futuro impegnata a raggiungere criticamente la teopoetica di Gesù e il suo linguaggio narrativo, simbolico, iconico. Quello di Gesù è linguaggio “poetico”, non solo perché utilizza metafore e analogie tratte dal vissuto della gente, ma perché è linguaggio che illumina, dischiude nuove visioni, allarga gli orizzonti dell’osservabile e punta a trasformare la vita, a cambiare la direzione di senso dell’esistenza, a rinnovare con l’amore le relazioni umane, a dare speranza e consolazione agli uomini e alle donne incontrati. La teopoetica di Gesù è utopia concreta del Regno di Dio. Per essere “poetico” non è meno “critico”, sicuramente “utopico”. Dovremmo capirlo da soli, anche senza menzionare la profezia dell’ultimo Heidegger sulla natura poetica del pensare che si svelerà in futuro. Quella di Gesù è l’immaginazione di un mondo nuovo, per costruire il quale sarà necessario raggiungere la sua immaginazione di Dio, “solo e sempre amore”, giusto perché assolutamente misericordioso: è un Dio che non ha nulla a che fare con la violenza perpetrata, ieri e oggi, in suo nome (Not in my name). Essendo, infatti, onnipotente nell’amore, Egli è radicalmente impotente nel fare il male, sia contro i suoi “nemici” (ma Dio, se è Dio, avrà nemici?), o anche contro i suoi amici (per provarne la giustizia, “inducendoli in tentazione”). C’è qualcosa che non va in questo linguaggio. La nuova traduzione del Padre nostro centra il problema teologico — la concezione di Dio — e non semplicemente un abbellimento stilistico per evitare banali fraintendimenti. È tempo di cambiare: è il kairòs per parlare una lingua nella quale non esista nessun equivoco sul rapporto Dio-violenza o, anche, religione-violenza. Nessuna giustizia di Dio può tollerare un’azione di Dio contro l’umanità, parola del Maestro di Nazareth: Dio è Padre di tutti e non sta dalla parte di nessuno, perché insiste nel portare tutti dalla sua parte, cioè dalla parte dell’amore radicale che spinge il dono della vita fino a morire. È l’amore che vince la morte ed è sempre più forte, anche della giustizia, perché della “sua” giustizia costituisce la verità più profonda.

L’urgenza è quella di comunicare in modo comprensibile la Verità dell’accadimento cristiano, tenendo conto che «occorre soffrire perché la verità non si trasformi in dottrina, ma nasca sempre dalla carne». È la carne del dramma umano che oggi invoca un nuovo annuncio di Dio e, pertanto, attende di riascoltare la buona novella nel linguaggio e nella forma (eucaristica) con cui Gesù stesso l’ha portata nel mondo. La teologia ha questa responsabilità etica di traslocare il sapere critico della fede in un linguaggio comprensibile hic et nunc, dentro l’attuale trapasso culturale, nel quale battagliano tanti altri saperi impegnati a offrire ben altre salvezze agli esseri umani.

Perciò è importante la transdisciplinarietà di cui parla Papa Francesco in Veritatis gaudium: prezioso indirizzo, considerando i percorsi plurali delle filosofie e delle scienze umane, come anche (e soprattutto) gli sviluppi della meccanica quantistica e i nuovi orizzonti dell’astrofisica. Con la famosa frase «e quindi uscimmo a riveder le stelle», dall’inferno alla spiaggia dell’anti-purgatorio, Dante e Virgilio (insieme) intraprendono un cammino di luce e di speranza, allontanandosi dalle grandi tenebre. Dopo la teoria della relatività generale di Einstein, con la previsione dei buchi neri (esistenti prima solo nelle sue equazioni e ora fotografati), è difficile continuare a parlare del tempo e dello spazio come se nulla fosse.

Ripensare le proprie categorie linguistiche, cercando analogie in altri saperi, è via maestra del rinnovamento della teologia. L’appello di teologhe e teologi lo invoca e lo prospetta. La teologia si apre fiduciosa a una sorta di “contaminazione di saperi”, nella quale potrebbe rinascere più vigorosa, a beneficio dell’umanità di tutti. Diversamente dal passato, in cui Rosmini immaginava una difesa della religione cattolica, la carità intellettuale di oggi, in questa nuova fraternità intellettuale, punta alla custodia e alla protezione dell’umanità dell’uomo in nome di Dio. Si giungerà, allora, insieme, a contemplare «l’Amore che muove il sole e le altre stelle» (“sempre l’Amore che queta questo cielo”). E magari, nel cammino illuminato dalle stelle (di Planck) la teologia incontrerà Gioacchino da Fiore, «l’abate calavrese di spirito profetico dotato», che già aveva immaginato una “teologia figurale”, attraverso la quale parlare della vita stessa del Dio trinitario nella storia stessa dell’uomo viandante, superando la visione essenzialista del Dio estrinseco, contestata al maestro delle sentenze. Altri tempi, visto che il Lateranense iv difese Pietro Lombardo contro Gioacchino. Ai nostri tempi, nei quali gli scienziati stanno sviluppando sistemi per permettere all’intelligenza artificiale di immaginare cose che non hanno visto, è proprio il caso che l’immaginazione si faccia più spazio nell’esercizio del lavoro teologico, secondo le intuizioni di Michael Paul Gallagher e la sua scuola (ma pure il cardinale Newman va menzionato).

Una teologia “immaginale” sarebbe di grande aiuto. Anche per questo bisognerebbe “ripensare” il sospetto di eresia che ancora “aleggia” sul pensiero trinitario dell’abate calabrese: una straordinaria immaginazione biblica che, con una teologia simbolica e figurale, ha saputo parlare di Dio come vivente nella storia dell’uomo, senza perdere nulla della sua trascendenza (diversamente da Hegel e del suo “spirito assoluto”). Ecco perché, presentando il Manifesto in 10 punti sulla Pop-Theology, intesa come «carità intellettuale a servizio della gioia del Vangelo», ho provocatoriamente scritto: «Se la teologia vuole eseguire il suo compito dovrà parlare oltre l’ambito concettuale dell’accademia e cercare un nuovo linguaggio comunicativo, che includa una conoscenza della fede più incarnata e connessa/corrispondente alle modalità culturali con cui il popolo scopre e vive il senso della propria vita. Cosa accadrebbe alla teologia accademica se decidesse finalmente di parlare all’intelligenza emotiva della gente comune, di tutti i giovani? Integrerebbe, nell’esercizio della sua razionalità, l’immaginazione e, attraverso di essa, la poesia e la letteratura (in ogni forma, anche in quella delle canzoni pop), acquisendo nel suo linguaggio nuovi registri linguistici estetici e artistici. Così aiuterebbe la nuova evangelizzazione a produrre nuove immaginazioni cristiane del mondo e di Dio, dando vita a una nuova “teologia dell’immaginazione” — una vera Pop-Theology — con l’allargare lo spazio sapienziale di esercizio della ragione e spingerla “oltre”, “sempre a venire”, comunicando soprattutto ai giovani con “questo nuovo linguaggio” la bellezza del Dio cristiano, solo e sempre amore».

*Vescovo di Noto

di Antonio Staglianò*