Alla presenza di san Pio X tra il 1905 e il 1908

Quando le “paralimpiadi”
si facevano in Vaticano

 Quando le “paralimpiadi” si facevano in Vaticano  QUO-188
21 agosto 2021

Da martedì 24 i Giochi a Tokyo


“La notizia” non è che in Vaticano si svolgessero tra il 1905 e il 1908 campionati “mondiali” di atletica e che, la domenica, le parrocchie romane organizzassero gare sportive alla presenza di san Pio X.

“La notizia” è che, all’inizio del ’900, in Vaticano gareggiavano atleti con disabilità. Quarant’anni prima dell’avvio del movimento paralimpico, che ha preso le mosse dalle macerie della seconda guerra mondiale. Un progetto che si potrebbe rilanciare oggi attraverso Athletica Vaticana: un secolo dopo, seguendo la testimonianza di Francesco, il primo passo di Athletica Vaticana — la squadra del Papa — è stato proprio aprire la sezione paralimpica.

Nel settembre 1908 c’erano atleti amputati come Baldoni che gareggiava nella velocità (vittoria irlandese, per la cronaca). C’erano atleti sordi e, nel salto in alto, 9 giovani non vedenti dell’Istituto Sant’Alessio. Con il vincitore, Cittadini (1 metro e 10 centimetri), intervistato dal cronista de «L’Osservatore Romano». Forse le Paralimpiadi — che si aprono a Tokyo martedì 24 — sono nate proprio nel Cortile del Belvedere, trasformato in pista di atletica, davanti a Papa Sarto e al cardinale segretario di Stato Merry del Val. E a chi gli diceva: «dove andremo a finire?» — vedendo atleti correre nei Giardini vaticani — Pio X ebbe a rispondere in veneziano: «Caro elo, in paradiso!».

«L’Osservatore Romano» nel 1908 seguì quelle gare internazionali di atletica (già lo aveva fatto nella prima edizione nell’ottobre 1905, che si svolse anche nel Cortile di San Damaso) come fosse... «La Gazzetta dello sport»: classifiche, commenti, interviste e persino schede tecniche sull’équipe medica del Fatebenefratelli (con tanto di diagnosi degli infortunati), le note di servizio per i 2.000 atleti e per Guardia svizzera e Gendarmeria che si alternavano nell’accogliere gli sportivi, anche con le loro bande musicali, fino a fornire informazioni al Portone di Bronzo quando alcune gare vennero rimandate per pioggia. E le parole del Papa in prima pagina.

Come al tempo delle gare “inclusive” volute da san Pio X, anche oggi le Paralimpiadi sono un passo in avanti nella promozione di una diversa percezione della disabilità. La sempre più grande copertura mediatica delle Paralimpiadi favorisce una nuova consapevolezza e stimola riflessioni preziosissime sia sul ruolo sociale dello sport sia sul concetto di abilità.

L’obiettivo del movimento paralimpico non è soltanto celebrare un grande evento, ma dimostrare quello che atleti — pur fortemente feriti nella vita — riescono a raggiungere quando sono messi nelle condizioni di poterlo fare. E se vale per lo sport, tanto più deve valere per la vita.

Sì, non solo nello sport — che, però, aiuta per la sua capacità di comunicare e suscitare emozioni — le persone con disabilità vanno messe nelle condizioni di esprimere ciò che possono fare. Creando pari opportunità. Costatando consapevolmente i limiti della disabilità (che ci sono), ma guardando anche l’enorme potenzialità che ancora ciascuno può esprimere. Se ne ha la possibilità, appunto.

Lo sport può aiutare a far crescere la comprensione della disabilità fino ad abbracciarla come risorsa. Vedere le abilità di un atleta paralimpico di alto livello porta inevitabilmente alla curiosità, a interrogarsi: ma come fa, con quelle protesi? E se lo si può fare nello sport, perché non in un ufficio o in classe? Con lo sport si può — si deve — coltivare la consapevolezza di cambiare la percezione della disabilità nella quotidianità di una famiglia, di una scuola, di un posto di lavoro...

Papa Francesco, nell’intervista a «La Gazzetta dello sport», lo scorso 2 gennaio, ha affermato — «sbalordito» — che gli atleti paralimpici hanno «storie che fanno nascere storie, quando tutti pensano che non ci sia più nessuna storia da raccontare». Storie di inclusione e «riscatto». Storie che ti sbattano in faccia la certezza che i limiti non sono nelle persone con disabilità ma nella mentalità di chi li guarda.

Purtroppo la pandemia non ha significato solo lo stop allo sport. Per molti ragazzi disabili ha voluto dire l’interruzione di un momento di inclusione fondamentale e, a volte, l’unico nelle loro vite. Con tante famiglie lasciate sole. Sì, siamo lontani dal prendere atto che lo sport dovrebbe occupare un posto nelle priorità delle agende della politica, per investire sulla persona.

Lo sport, più di qualsiasi altra esperienza umana, rappresenta una “medicina sociale” per aiutare tanti ragazzi con disabilità a ripartire. “Resilienza”, si chiama, e a un atleta paralimpico non devi spiegarla. Recuperando anche il concetto sportivo dell’assist... l’assist-enzialismo dovrebbe essere quell’esperienza di persone che si aiutano l’una con l’altra. Ecco che il concetto di assist-enzialismo può essere declinato in positivo.

È un po’ folle pensare di cambiare la cultura, mentalità radicate, con lo sport paralimpico? Forse, ma senza quella sana follia Alex Zanardi non sarebbe diventato un contagioso “incoraggiatore” di disperati e Bebe Vio sarebbe rimasta a piangersi addosso in un letto, senza braccia e senza gambe.

E, allora, da martedì prepariamoci a fare il tifo per... tutti, senza guardare le bandiere: sono donne e uomini legati dal file-rouge dalla sofferenza. E un tifo particolare per i sei atleti del Team rifugiati. Nell’edizione di lunedì «L’Osservatore Romano» racconterà le loro storie, insieme a quelli di altri atleti.

Ma non è retorica affermare che, conti (della vita) alla mano, non esiste differenza tra l’atleta di alto livello e “la base”, cioè chi fa uno sport per non stare chiuso in casa. I campioni che vincono medaglie e stabiliscono record sono testimoni che attraggono coloro che devono ancora trovare il coraggio di mettere in atto la loro resilienza.

Può sembrare persino scontato far presente cosa significa per tanti ragazzi che stanno in un letto in ospedale vedere atleti con una disabilità realizzare prestazioni sportive. E arrivare, magari, a dire a se stessi: forse lo posso fare anche io, forse ce la posso fare!

Per questo le Paralimpiadi sono persino “più” delle Olimpiadi, al di là del suffisso greco “para” scelto per sancire che sono la stessa cosa e allo stesso livello. Ma sostenendo atleti disabili di alto livello si mette in moto un “circolo” virtuoso che abbraccia il ragazzino escluso perché diverso. Insomma, «un’immagine splendida di come dovrebbe essere il mondo» ha fatto notare Papa Francesco. La vera vittoria della “famiglia paralimpica” resta la capacità di fare comunità per creare, appunto, questo movimento che coinvolge i campioni e quei ragazzini che oggi faticano a fare un passo o ad alzare un braccio. E si vergognano di farsi vedere fragili. Per non parlare di coloro che hanno un ritardo cognitivo...

di Giampaolo Mattei