I racconti della domenica

La benedizione di Giacobbe

 La benedizione di Giacobbe  QUO-188
21 agosto 2021

«Nascono due figli a Giuseppe prima che venga la carestia. Il primo che chiama Manasse: “Perché — disse — Dio mi ha fatto dimenticare ogni affanno e tutta la casa di mio padre” e il secondo Efraim “Perché — disse — Dio mi ha reso fecondo nel paese della mia afflizione”. Manasse ed Efraim con un rito interessante vengono adottati da Giacobbe. Egli è alla
fine dei suoi giorni, sapendo che Giuseppe viene a trovarlo con i due figli
Manasse ed Efraim, si siede in mezzo al letto» (A. Grasso).

È un comandamento (Mitzvah) per i genitori ebrei benedire i loro figli lo shabat e i giorni di festa, prima del pasto serale. L’usanza di benedire i figli è antica e risale secondo la tradizione a Giacobbe (Gen 48-49). Le famiglie possono stabilire un loro proprio rituale. Generalmente per la benedizione dei ragazzi si dice: «Possa tu essere come Efraim e Manasse», mentre per le ragazze si dice: «Possa tu essere come Sara, Rebecca, Rachele e Leah». Poi si aggiunge: «Che il Signore ti benedica e ti conservi. Che il Signore ti illumini della sua luce e ti accordi la sua grazia. Che il Signore diriga il suo sguardo verso di te e ti dia la pace» (Nb 6, 24-26. Siddur Sefat Haneshamah, p. 203). La benedizione sacerdotale di Nb 6 divenne la benedizione dei laici che sono membri di un popolo sacerdotale (Es 19, 6). Per Abraham Heschel la Bibbia è un’antropologia di Dio piuttosto che una teologia dell’uomo.

Efraim e Manasse sono stati scelti come modelli di benedizione piuttosto che i Patriarchi perché mantennero la loro identità distinta di Israeliti, anche se vivevano in un luogo dove erano circondati e in inferiorità numerica dagli egiziani e dai loro dei.

Anche Gesù benediceva i bambini: «“In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”. Prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro» (Mc 19, 13-16). È un gesto che aveva imparato da Giuseppe che lo benediceva ogni shabat.

L’origine della benedizione dei bambini è biblica. Quando Giuseppe condusse i suoi figli da suo padre per ricevere la sua benedizione, li mise davanti a Giacobbe nell’ordine in cui erano nati: Manasse a destra ed Efraim a sinistra. Ma Giacobbe incrociò le mani e mise la mano destra sulla testa di Efraim. Quando Giuseppe protestò dicendo che Manasse era più vecchio, Giacobbe gli disse che Manasse sarebbe stato alto ma che Efraim lo avrebbe superato.

Giacobbe benedisse i suoi nipoti, Efraim e Manasse, figli di Giuseppe, incrociando le braccia e imponendo la mano destra sul capo del più giovane (Gen 48, 1-20). Il Targum commenta il gesto: Efraim sarà nominato prima di Manasse nella lista delle tribù.

Per i Padri della Chiesa l’incrocio delle braccia di Giacobbe divenne una profezia della croce di Cristo (Tertulliano, De Bapt 8, 2). Sembra una affermazione implicita che non esiste una benedizione autentica per i cristiani senza la croce di Cristo. Altri Padri leggono la scena come il simbolo dell’ascesa del popolo più giovane, il cristianesimo, rappresentato da Efraim, e del declino del popolo giudaico rappresentato da Manasse (Epistola di Barnaba 13, 4-6; Agostino, De Civitate Dei 16, 42). La stessa problematica dell’eredità ritornerà nell’identificazione di Giacobbe ed Esau fatta dai Padri. Alcune volte le due interpretazioni dell’incrocio delle braccia saranno collegate come in Paolino di Nola (Ep. 23, 41). La più antica raffigurazione della scena si trova su una pittura nella sinagoga di Dura Europos sulla quale una variante significativa merita di essere notata: Giacobbe impartisce la benedizione senza incrociare le braccia, gesto che potrebbe, nel terzo secolo, essere una contrapposizione dell’esegesi giudaica all’esegesi cristiana tipologica. La polemica invaderà il campo dell’esegesi ben presto. Mentre il giudaismo ha mantenuto la tradizione di benedire i bambini ogni shabat, il cristianesimo non ha seguito l’esempio di Gesù che benediceva i bambini nonostante l’opposizione dei discepoli. Merita una menziona la poesia di Khalil Gibran (1883-1931) che illustra il tema della filiazione:

«I tuoi figli non sono figli tuoi. / Sono i figli e le figlie della vita stessa. / Tu li metti al mondo ma non li crei. / Sono vicini a te, ma non sono cosa tua. / Puoi dar loro tutto il tuo amore, ma non le tue idee. / Perché loro hanno le proprie idee. / Tu puoi dare dimora al loro corpo, non alla loro anima. / Perché la loro anima abita nella casa dell’avvenire / dove a te non è dato di entrare, / neppure col sogno. /Puoi cercare di somigliare a loro / ma non volere che essi somiglino a te. / Perché la vita non ritorna indietro, / e non si ferma a ieri. / Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani».

(Il profeta (“The Prophet”),
New York 1923).

di Frederic Manns