Storie dalle Villas Miseria

Dalla baraccopoli al monastero

 Dalla baraccopoli  al monastero  QUO-182
12 agosto 2021

Immaginate un manipolo di uomini, un centinaio, tutti residenti in ambienti segnati dall’emarginazione. Famiglie a carico, talvolta più di una. Figli, generalmente molti, e in un buon numero di casi avuti con donne diverse. Scuole elementari alle spalle e solo quelle, nei migliori dei casi. Tra di loro c’è chi la scuola non l’ha conosciuta, e scrive e legge con difficoltà o non lo fa affatto.

Gli uomini di cui stiamo parlando vivono di lavori pesanti, formali e informali come si suole classificarli in queste favelas suburbane. Lavori precari per lo più, le cosiddette changas, di quei lavoretti insomma che bisogna prendere al volo quando capitano e consentono di allentare la cinghia per qualche settimana. Ci sono netturbini tra di loro, raccoglitori di cartone, giardinieri, domestiche, riciclatori, autisti di auto a noleggio. Qualche impiegato comunale, due o tre dipendenti delle ferrovie, un paio di conducenti di autobus. Altri, una buona metà, il lavoro non ce l’hanno affatto.

Alcuni di questi uomini hanno un passato non impeccabile, con qualche passaggio in carcere, da detenuti o per far visita a figli, fratelli, famigliari finiti in galera per qualche ragione, che quasi sempre si divide tra spaccio e furto.

Immaginate questi stessi uomini in un monastero con clausura annessa, tutti seduti uno di fianco all’altro davanti all’altare maggiore, compìti e in silenzio.

Dietro quello stesso altare, anch’essi seduti gomito a gomito negli scranni del coro, ci sono una decina di monaci sperimentati e dalla lunga veste bianca. Tutti hanno in mano un voluminoso libro e recitano salmi “in recto tono” modulati dal falsetto di un gregoriano sostenuto.

Non è facile immaginarlo, vero? Per questo bisognava essere lì quando tutto questo è avvenuto. Ma fidatevi! È successo proprio così, nel primo monastero benedettino sorto in America del Sud, quello che porta il nome del Niño Dios, nei pressi della città di Victoria, nella provincia argentina di Entre Rios, a trecento chilometri da Buenos Aires più o meno. Una abbazia di fine Ottocento, la prima nell’America spagnola, filiazione del monastero francese di Notre-Dame de Belloc, nei Pirenei atlantici.

Per un giorno il convento benedettino di Gesù Bambino è stato occupato da un manipolo di uomini delle villas miseria della periferia argentina, e i monaci sono tornati alle origini, quando il popolo degli umili portava nelle mura consacrate le pene e i peccati della propria stirpe. L’hanno fatto anche gli uomini di cui stiamo parlando. Hanno introdotto nell’abbazia conventuale il peso della droga che flagella i loro figli, le angustie del lavoro precario, l’umiliazione di non poter portare a casa il necessario per le loro famiglie, le vite spezzate di chi è in carcere, le frustrazioni dei giovani delle baraccopoli che imboccano la strada del furto e della violenza.

E non è tutto. Immaginatevi i cento di cui sopra parlare di preghiera e di lavoro (l’ora et labora di universale memoria) con l’abate in carica della suddetta abbazia, il sesto nella storia del monastero. Per un’ora e passa hanno interrogato il priore sul senso cristiano del lavoro, sulla glorificazione della fatica quotidiana del vivere, sul valore dell’amore al prossimo, sulla convenienza umana dell’essere cristiani, sull’esperienza della fede in una comunità determinata.

Nell’ora del vespero le porte del monastero si sono chiuse di nuovo, il silenzio ha riconquistato l’eremo, i monaci sono tornati alle loro preghiere e i villeros si sono rimessi in viaggio portando un pezzo di abbazia nella loro villa.

di Alver Metalli