La legge del movimento

 La legge del movimento  QUO-176
05 agosto 2021

La Divina Commedia ha accompagnato Osip Mandel’štam per molti anni della sua vita. Nel 1932 aveva cominciato a studiare italiano proprio sul poema dantesco. Al 1933 risale la stesura in Crimea di Conversazione su Dante (Torino, Adelphi, 2021, pagine 116, euro 13, a cura di Serena Vitale) che però non trovò un editore disposto a pubblicarla. Nel 1934 viene arrestato per la prima volta. Racconta la moglie Nadežda che, quasi ne avesse avuto la premonizione, si era fatto un piccolo Dante tascabile che aveva sempre con sé, nel caso fossero venuti a prenderlo...

Nel 1938 fu fermato una seconda volta nell’esilio di Samaticha, dove si era portato un’edizione più corposa della Commedia. Non si sa se era riuscito a tenerla con sé anche quando fu trasferito nel lager di transito di Vtoraja rečka nell’estremo oriente della Russia presso Vladivostok. Secondo il racconto di alcuni testimoni, qui trascorse gli ultimi suoi giorni in condizioni terribili, malato, al gelo, senza cibo, recitando, quasi per suo testamento spirituale, brani della Commedia di Dante.

Poi la morte, una fossa comune e solo dal 1991 una piccola zolla di quella terra “riposa” accanto alla tomba della moglie al cimitero Kuncevskij di Mosca. Racconta Varlam Šalamov, che nei Racconti di Kolyma ha immaginato gli ultimi momenti di vita del poeta, che quando uscì per la prima volta a stampa in Russia nel 1967 Conversazione su Dante, tirato in 25.000 copie, andò letteralmente a ruba e «rimase in vendita solo per due ore» (Corrispondenza, Mosca, 2009). Opera insieme di critica letteraria e di poetica, come spesso accade quando un poeta legge un altro poeta, Mandel’štam indica nel «movimento» la legge della Commedia. Immagini che generano altre immagini, un caleidoscopio di forme, di trame e di motivi, nei quali «l’opera non resta simile e a se stessa nemmeno per un attimo».

Niente di più lontano dalla fantasmagoria dantesca l’idea di uno sviluppo: «È un grandissimo errore pensare alla Commedia come a un racconto lineare o all’estensione di un’unica voce». La sua lettura immerge chi si accosta ad essa in un flusso continuo, in una corrente che dilata continuamente lo spazio, senza tuttavia allontanare il poema dalla fine «che arriva inattesa e suona come un inizio».

Ad affascinare Mandel’štam è proprio questa legge del movimento, «di una materia poetica reversibile e in via di conversione, che esiste unicamente nello slancio dell’esecutore». È questa qualità intrinseca che conferisce all’opera un carattere assolutamente unitario: «L’intero poema — scrive — è una sola strofa, unica e indivisibile» che egli, sforzandosi di essere più preciso, preferisce accostare più che a una forma metrica a «una figura cristallografica, un solido attraversato da un’incessante tensione generatrice di forme... Un poliedro dalle tredicimila facce».

Proprio perché sa di aver a che fare con qualcosa che rimane inafferrabile per sua natura, quello che propone dell’opera dantesca sono solo dei carotaggi, degli assaggi, delle suggestioni strappate a un’unità che rimane inconoscibile come le ragioni della creazione artistica. Tuttavia in questi particolari che egli offre non c’è niente di rapsodico e le intuizioni del poeta russo riescono a cogliere tratti universali della Commedia.

Per esempio contrariamente al modo di rappresentare l’inferno come un imbuto, con cerchi, bolge, luoghi di supplizio, Mandesl’štam dà un’immagine del tutto inedita del regno del peccato: «L’inferno non racchiude nulla al suo interno; non ha più volume di un’epidemia, di una pestilenza, di qualsiasi contagio si diffonda nello spazio pur non avendo nulla di spaziale». La sua materia è altrove, in quella Firenze che ha dovuto abbandonare e della quale ogni canto tradisce nei suoi confronti l’amore, l’ossessione e la rabbia. «I suoi gironi non sono altro che gli anelli di Saturno dell’esilio». Si avverte bene che a parlare è un altro esiliato: «L’esule sente in ogni luogo la città perduta per sempre, unica, e interdetta — ne è circondato. Lo stesso inferno sono tentato di dire è circondato da Firenze». E ancora si possono citare altre folgoranti “illuminazioni” sulle cantiche. «L’Inferno ancor più il Purgatorio celebrano l’andatura umana, la misura e il ritmo dei passi, il piede, la sua forma»; e sul Paradiso: «Ai miei occhi la terza cantica della Commedia è un vero balletto cinetico: danze e figure luminose di ogni genere».

È un compito arduo descrivere la luce, ecco come ci riesce Dante, nell’esempio che offre il poeta russo. «Davanti a me ardevano quattro fiaccole, e quella più vicino d’improvviso si animò divenendo di un rosa intenso, quasi che Giove e Marte, improvvisamente mutati in uccelli, si fossero scambiati il piumaggio» (Paradiso 27, 10-15).

Per quanto riguarda i canti sono diversi quelli su cui appunta la sua attenzione. Per esempio nel decimo dell’Inferno egli nota, giocando sul perno dell’ebbe di Cavalcante a Dante, «il dialogo magnetizzato dei tempi verbali: imperfetto, passato remoto, congiuntivo passato, lo stesso presente e il futuro si affermano in tono categorico, autoritario». Nel canto diciassettesimo, quello degli usurai, descrive Gerione, il demonio alato che aveva il compito di accompagnare Virgilio e Dante nel cerchio più basso, come «un mostruoso mezzo di trasporto, come un potentissimo carro armato, per di più provvisto d’ali», il quale dopo aver terminato il suo volo con in groppa i due poeti e averli depositati nelle Malebolge, prontamente viene equipaggiato da Dante «per una nuova trasferta» e «si allontana quasi una penna della freccia scoccata da un arco».

La magia di questa immagine, rivela un’altra qualità propria della Commedia, per cui si passa da una scena all’altra, da una situazione all’altra, spesso adottando la forma di un continuo saluto: «In Dante — egli scrive — le immagini si lasciano salutandosi per sempre. È difficile scendere lungo i dirupi dei suoi versi-addii». Il poeta russo ne fornisce un esempio a partire dai movimenti iniziali del canto ventiseiesimo dell’Inferno, quello di Ulisse: «Ci siamo appena staccati dal contadino toscano che ammira la danza fosforescente delle lucciole, i nostri occhi ancora sfarfallano per il vivido bagliore impressionista del carro di Elia che si dissolve in una nuvola e già sentiamo citare la pira di Eteocle, udiamo il nome di Penelope». Già molto prima di Bach, nota Mandel’štam, prima ancora che si conoscesse l’organo e «lo strumento per eccellenza era ancora la cetra che accompagnava la voce umana», Dante aveva dato un saggio dell’arte della fuga e in questa dilatazione aveva svelato una proprietà tipica della parola poetica. Essa infatti «si distingue dal linguaggio automatico perché ci sveglia di soprassalto a metà parola — parola che ci sembra molto più lunga di quanto credessimo» e che perciò ci impegna sempre in un viaggio — proprio come quello dantesco — attraverso il quale «noi ricordiamo che parlare è sempre essere in cammino».

di Lucio Coco