Guardare il mondo con lo sguardo di Dio

26 luglio 2021

Quando ero bambino, d’estate trascorrevamo sempre un mese o due nella casa di famiglia che avevamo in campagna. Era per me un tempo speciale, avvolto da un’aura di favola: le corse a perdifiato nei campi fioriti, l’odore inconfondibile della terra dissodata, l’azzurro del cielo, il verde degli alberi, il rosso dei tramonti… Che spettacolo, poi, l’abbondanza dei frutti della terra: il profumo pungente dell’olio appena tornato dal frantoio, i granai ricolmi di chicchi biondissimi, nei quali tuffarsi insieme ai fratelli… E le giornate intere trascorse a giocare insieme spensierati, dal mattino presto fino al tramonto inoltrato, a sazietà… Un tempo felice, come ogni infanzia dovrebbe essere. In quella casa sulle colline della Sabina ho arricchito il mio vocabolario affettivo relativo alla gioia. Nonostante tutti questi ricordi siano uno più bello dell’altro, ce n’è uno che si impone su tutti, quando penso a cosa sia la vera gioia, cioè la gioia concretamente possibile nella complessità dell’esperienza umana. Ed è il ricordo di nonna Carolina.

A duecento metri dal nostro casale abitava una famiglia di contadini. Avevano un unico figlio, più o meno dell’età di mia sorella, il quale, oltre alla mamma e alla nonna, aveva anche una bisnonna di nome Carolina. Era piccina, minuta, curvata dagli anni: pensavo che dovesse averne almeno cento. La vedevo sempre seduta sulla sua sedia sgangherata, appena fuori dall’uscio di casa, accomodata lì da qualche familiare per consentirle di osservare quel che accadeva sull’aia. E lei tutto guardava con grande curiosità, e non con l’attenzione distratta e svogliata con cui molti anziani oggi stazionano davanti alla tv . A parte un grembiule dalle ampie tasche, contrassegno inconfondibile di una laboriosità ormai tramontata, era vestita sempre e soltanto di nero, come conveniva alla sua condizione vedovile. Un grande fazzoletto, anch’esso rigorosamente nero, era annodato dietro la nuca e nascondeva pochi ciuffi scomposti di capelli bianchi. La pelle del viso era scura e grinzosa, cotta al sole nelle lunghe giornate a zappare nell’orto. Le mani, secche e nodose, lasciavano intuire un antico vigore scomparso; ma l’unico strumento che adesso stringevano era la corona del rosario. Credo di aver sentito sulle sue labbra solo due frasi. “Come stai, nonna Carolina?”, le chiedevo. “Eh, ringraziamo Dio!…”, era la sua unica risposta, in qualunque condizione si trovasse. Ma soprattutto non posso dimenticare le parole che immancabilmente ripeteva, con il suo accento popolare, quando, scorrazzando nel cortile come tutti i monelli, ruzzolavamo ad un passo dalla sua sedia, rischiando di farla cadere: “Dio ti benedica!”. E, agitando le mani avanti a sé, in segno di benevolente augurio, abbozzava un sorriso maldestro, deformato dai numerosi denti mancanti. La forza del suo sorriso, però, era tutta negli occhi, incredibilmente luminosi e giocondi.

Le parole di nonna Carolina si sono scolpite nel mio cuore. Le ho sempre comprese, fin da piccolo, come la fioritura di un cuore pacificato, libero da ogni invidia, capace di gioire del bene degli altri come se gli appartenesse in proprio. Segno di una vita piena, consumata dagli anni ma tutt’altro che sfatta; una vita piena di amore e profondamente appagata. Epifania di un cuore colmo di gratitudine e di benedizione per ogni creatura. Effusione incontenibile di un’esultanza che scaturisce nel profondo dinanzi al miracolo della vita. “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti…”.

Questa, per me, è l’autentica gioia cristiana: la capacità di godere del bene altrui senza pensare a sé stessi. Compiacersi che l’altro sia, e che magari sia anche “più” di me — più giovane, più bello, più bravo, più santo, più… tutto! — evitando inutili confronti, sterili rimpianti e sciocche recriminazioni. Quando saremo capaci di questa libertà da noi stessi potremo sperimentare la vera gioia. Perché avremo lo sguardo di nonna Carolina, che era felice al solo vederci correre pieni di vita, e che quella vita esuberante di noi bambini lei, vecchia e malmessa, la sentiva scorrere nelle sue vene come se fosse sua. Perché questo è lo sguardo del buon Dio, che contempla una ad una le sue creature, dicendo compiaciuto tra sé e sé che tutto è cosa buona, molto buona. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”. “Beati i puri di cuore, perché vedono come Dio”.

di Filippo Morlacchi