ZONA FRANCA
Evangelizzazione e teologia

La Parola in uscita

 La Parola in uscita  QUO-164
22 luglio 2021

“Zona franca” è uno spazio che ospita i contributi che seguono l’appello «Salvare la fraternità. Insieme», pubblicato per iniziativa della Pontificia Accademia per la vita e firmato da un gruppo di teologhe e teologi cattolici con l’intento di avviare una interazione tra la teologia e il sapere umanistico.

L’intrinseco rapporto fra il sapere dell’umano che ci è comune e la portata globale dell’etica della vita, è il focus di questa iniziativa. Essa cerca di tradurre, in termini adeguati alla responsabilità della professione intellettuale — credente e laica, religiosa e non religiosa — la potenza dell’appello a una “fraternità ritrovata” che l’ispirazione della fede mette in primo piano nell’enciclica «Fratelli tutti» di Papa Francesco. La creazione di una “corrente calda” del pensiero, che presenti l’evidenza di una “intelligenza amica” dell’umano, è l’intento di questa inedita iniziativa. 

Siamo convinti che una nuova alleanza fra il sapere degli “esperti” e la sapienza dei “popoli” chieda un nuovo senso di responsabilità. L’impresa è possibile. E l’obiettivo può essere conquistato, ma soltanto insieme con tutti coloro che condividono, in questo passaggio d’epoca, la passione per l’umano che ci è comune. Ovviamente non si tratta di diventare “tutti cattolici”, ma — appunto — di pensarsi cordialmente “tutti fratelli”. 

La passione e l’entusiasmo per questo compito richiedono una condivisione: lo spirito critico e quello autocritico sono ugualmente necessari per avvicinarci all’impresa. Ne abbiamo bisogno. E ci manca tanto. Questa rubrica si pone come uno dei luoghi per una effettiva fraternità nel dibattere. 

di Vincenzo Paglia
 

La domanda: «Quale teologia per il nostro tempo?», rischia di convertirsi in una questione ancora più radicale: «Abbiamo ancora bisogno della teologia?». Il fatto è che oggi la necessità della teologia è messa in discussione ad extra e ad intra: la società secolare non ha fiducia in un’indagine della verità che presuppone la propria verità, in cui la verità è cioè pensata come punto di partenza oltre che di arrivo. Nella comunità ecclesiale, a sua volta, da un lato c’è chi pensa che aver accolto la verità significhi possederla, esserne titolari, e dall’altro c’è chi ritiene che la verità cristiana possa essere testimoniata solo come intervento pratico nel mondo, come diakonia all’uomo, senza bisogno della mediazione sacerdotale della sua trascendenza, della custodia regale della sua sacralità e della critica profetica a ciò che le è avverso. Per gli uni, la verità è solo insegnata, come un pacchetto di sapere indiscutibile e immutabile; per gli altri, alla verità si accede solo nell’azione e nel servizio e non, complementarmente, nel percorso lento e paziente dell’esercizio riflessivo e contemplativo della razionalità umana.

Incalzata da questa triplice fonte di scetticismo, esterno e interno, secolare ed ecclesiale, la teologia si indebolisce, e con essa si svigoriscono la Chiesa e la società. Sono infatti profondamente convinto che non c’è evangelizzazione senza teologia. La società non ascolterà l’annuncio della Parola, la Chiesa non potrà portare la Parola a tutti gli uomini, se la missione dell’evangelizzazione non si realizzerà nella dinamica di quel peculiare duplice esercizio teologico che è pensare la Parola di Dio alla luce della storia umana e pensare la storia degli uomini alla luce della Parola di Dio.

Se insegnare il Vangelo è la missione affidata da Gesù ai discepoli, se senza annuncio non c’è Chiesa, non c’è possibilità di conversione (metanoia) degli uomini e della storia, allora non c’è Chiesa senza teologia. Ritenere che l’insegnamento sia qualcosa che prescinde dal pensiero, dall’interrogazione, dalla novità, pensare che insegnare sia semplicemente trasmettere ciò che è già noto, è (come ci insegnano tutti i veri maestri) la morte dell’insegnamento. La Chiesa è magistra non perché sa tutto, e non ha più bisogno di pensare (avendo eventualmente bisogno solo di agire), ma perché si affida a una verità che è allo stesso tempo cammino, direzione, punto di partenza e meta, una verità che mette per strada ed è comunione, che si dona unicamente come Pane e Vino condivisi dagli uomini alla tavola della storia. Come insegnare una verità che non sia un semplice contenuto saputo, ma un’esperienza di comunione che si fa carne, sacramento di vita?

La crisi della teologia ha a che fare con la crisi della parola “insegnare” e con la difficoltà della trasmissione. Non ho, com’è evidente, soluzioni per un problema di proporzioni epocali: nessuno di noi individualmente, solo la comunità ecclesiale nel suo insieme, sotto la guida di Cristo, suo Buon Pastore, potrà trovare una risposta, una via d’uscita da questa crisi. Sono però convinto che la strada giusta sarà percorsa, ancora una volta, alla luce del Vangelo, e che ad esso dobbiamo sempre tornare per capire chi siamo e cosa ci viene chiesto. Non recupereremo una comprensione adeguata di che cosa significhi essere evangelizzatori, testimoni e teologi — interpreti della Parola nell’esperienza degli uomini — senza intendere fino in fondo che cosa sia il magistero secondo il Vangelo. Tutta la vita di Gesù, il Rabbuni, è in questo senso una catechesi da meditare e interiorizzare, ma ci sono alcune pagine del Nuovo Testamento che ci offrono un buon punto di partenza, perché in esse troviamo indicazioni molto chiare e concrete su questo tema. È il caso delle indicazioni date ai Dodici in occasione della loro prima missione di apostoli, “inviati”, rappresentanti, predicatori del Vangelo (Marco, 6, 6-13; Matteo, 10, 5-15; Luca, 9, 1-6; 10, 1-11). Le istruzioni di Gesù definiscono la missione di insegnare la buona novella come un’opera teologica di inculturazione e di esplorazione, ben diversa dall’immagine statica e verticale che di solito associamo al ruolo del magistero della Chiesa.

«Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando» (Marco, 6, 6). L’originale greco άσκσκων e la traduzione latina («et circuibat castella in circuitu docens») ci comunicano in modo iconico il fatto che, per Gesù, insegnare non è accomodarsi su una sedia a parlare, aspettando che la gente venga ad ascoltare, ma è camminare, andando in mezzo agli uomini, nella varietà dei luoghi da loro abitati. Insegnare è spostarsi là dove si trova l’uomo, dove vive, raggiungerlo nel suo concreto contesto ambientale, sociale, mentale, nella pluralità delle sue espressioni storiche e geografiche (è passare da un ambito all’altro, percorrere. Insegnare è una pratica “peripatetica” (come già sapeva Aristotele), che costruisce una topografia. Purtroppo, nella Chiesa e non solo, si è andato perdendo il senso di questa dinamica propria dell’insegnare, il suo essere movimento, esplorazione, viaggio. È per questo che quando Papa Francesco parla di una Chiesa in uscita, restiamo sorpresi: ci eravamo abituati a considerare i Pastori come protagonisti di un discorso ex cathedra, mentre ora c’è chi ci dice che insegnare è andare in giro per il mondo, scoprirlo, attraversarlo, creare connessioni e collegamenti (“in circuitu docens”). Insegnare non è semplicemente trasmettere una lezione, ma pensare il mondo, visitarlo, conoscerlo, disegnare e mettere in luce circuiti, continuità, interdipendenze, ponti nella diversità. Non c’è evangelizzazione senza teologia, senza questo uscire della parola umana dalla Parola, per fare il giro della terra, decifrarla e ridisegnarla.

Insegnare è esplorare, scoprire, imparare, e anche diventare “parte di”, ricevere ospitalità dalla terra, dalla sua cultura, dalle sue tradizioni. L’inculturazione della Parola è traduzione in due sensi: è dare e ricevere ospitalità nelle lingue, nelle città, nei popoli, negli individui, ed è quest’opera culturale di traduzione che chiamiamo teologia, come illustra in particolare una delle istruzioni date da Gesù ai suoi inviati: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro» (Marco, 6, 10-11). Insegnare è partire, raggiungere l’uomo là dove si trova, ma è anche prendere casa con lui, esserne ospitato. Le lingue, le tradizioni culturali, le civiltà, sono le case in cui la Chiesa si stabilisce tra gli uomini, in cui la Parola entra e, una volta accolta, inaugura permanenza che è condivisione esistenziale, un pezzo di storia, un pezzo di vita. Certo, non tutte le tradizioni e le espressioni di civiltà, le manifestazioni dell’intelligenza e della volontà umane, sono ospitali nei confronti della Parola: può accadere, avverte Gesù, che «in qualche luogo non vi accolgano e non vi ascoltino». Dove regna una cultura della violenza, dell’irresponsabilità non solidale, della radicale negazione materialistica del bene e della verità, non c’è modo per il cristiano, per il teologo, di instaurare un rapporto ospitale di condivisione della Parola di Dio. Ci sono contesti storici e costellazioni culturali in cui il cristiano non ha casa. Guerra, malaffare, prevaricazione, sfruttamento, oppressione, materialismo e individualismo radicali, sono tetti storici e ideologici sotto cui il cristiano non trova riparo, nei confronti dei quali testimonia razionalmente ed esistenzialmente l’incompatibilità della verità che gli è affidata, nella speranza di sradicarli, di promuoverne la conversione. Pensare l’uomo non è assenso incondizionato, ma anche profetica denuncia del male e resistenza ad esso. La vera teologia, come ci insegnano tanti martiri del pensiero, come hanno testimoniato, nel Novecento, intellettuali della fede come Dietrich Bonhoeffer, Simone Weil ed Etty Hillesum, è un’intelligenza della storia che in nome dell’amore incondizionato per l’uomo può dire “no” all’uomo, fino alla morte.

Se insegnare, come lavoro teologico di inculturazione della Parola, è dunque uscire, mettersi per strada nella terra e chiedere in essa ospitalità; se insegnare è partire e affidarsi all’accoglienza da parte della storia, dei linguaggi degli uomini, delle loro esperienze, dei loro codici e tradizioni, insegnare è allora anche spogliarsi, restare più poveri, “svuotarsi’, kenoticamente, di risorse materiali e simboliche, di un patrimonio assicurativo, di garanzie preventive: «E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche» (Marco, 6, 8-9). La teologia in uscita è povera e umile: non può contare su nessun capitale, simbolico o materiale. Avendo «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Filippesi, 2, 5), il Verbo divino che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi (Giovanni, 1, 14), la teologia rinuncia a statuti privilegiati, alla rivendicazione della gloria divina della verità trascendente di cui è depositaria (Filippesi, 2, 5-8). Non ricorre al passato come a un dispositivo di controllo del presente e del futuro.

Nell’uscire nella storia, nel mondo, chi evangelizza può portare con sé solo tre ricchezze: la Parola che annuncia; la comunione con la comunità di appartenenza, la Chiesa («e prese a mandarli a due a due», Marco, 6, 7); e il bastone che supporta il suo cammino: un legame con la Tradizione, con il cammino precedente del popolo di Dio, che non costituisce un possesso o un punto di arrivo in cui fermarsi, ma un compagno di viaggio, in direzione di nuove città e nuove dimore. In questo uscire che è evangelizzare, in questo percorrere la terra, la storia, che è insegnare la Parola (visitare e conoscere gli uomini, cosa pensano, cosa vogliono, cosa sanno, cosa possono; condividere il loro tetto e la loro mensa), la teologia perde se stessa se getta via il bastone della Tradizione e se opta per una solitudine individualistica. D’altro lato tradisce la propria missione (la vocazione dell’invio) se fa delle proprie ricchezze (la Parola, la Tradizione e l’appartenenza ecclesiale) un possesso, un’assicurazione di viaggio, una mappa prestabilita, un potere, una precomprensione che blocca, rendendo ciechi e sordi alla vita degli uomini.

Chi porta con sé la Parola per insegnarla agli uomini deve viaggiare leggero (traveling light, come dicono gli anglosassoni), perché tutto il resto è zavorra che sovraccarica, ritarda, arresta. La teologia in uscita nella sua missione di evangelizzazione è leggera, ha buone gambe, è ospitale ed ama essere ospitata. Stabilisce circuiti di collegamento tra culture, epoche, geografie, ambiti sociali e forme di razionalità. Fa del passato un bastone per camminare, fa dell’appartenenza alla comunità ecclesiale un compagno di viaggio e non una fortezza in cui rinchiudersi, fa della Parola un pane di vita condiviso sulla mensa dell’azione e della contemplazione, del pensiero e del servizio, del ringraziamento e della preghiera.

di José Tolentino de Mendonça