La prima cosa

Quel legame originario
tra la scena umana
e la fine del buio

Claude Monet, «Impressione,  Sol Nascente» (1872)
13 luglio 2021

La prima cosa che ha catturato la sua attenzione sono state le fonti di luce. Virginia è nata poco più di due mesi fa, ma in pochi giorni ha riposto alla luce, prima ancora che ai volti, alle voci e alle cose. Nasciamo ciechi. Veniamo alla luce. L’espressione con cui rappresentiamo il nostro entrare nella vita riconosce un legame originario tra la scena umana e la fine del buio. Federica e Luca, i genitori della piccola, hanno subito colto la possibilità di unire alle cure — tatto, gusto, udito, olfatto: presenza — una nuova interazione, fatta di luce e di parola.

Iniziata come un gioco di lampade e riflessi, accompagnato da sussurri e piccole esclamazioni, nello scorrere dei giorni e poi dei mesi sarà il mondo intero a prendere forma tutto intorno. È costitutivo, infatti, del nostro modo d’essere ciò che Mario Botta ha colto dall’interno della sua professione: «Nonostante sembri che siano muri, soglie, linee disegnate dall’architetto a determinare lo spazio in cui viviamo, osservando meglio ci si accorge che l’elemento apparentemente sfuggente di un progetto, la luce, è la vera generatrice dello spazio. Essa diviene quindi la materia prima dell’architettura. Di per sé astratta, eterea, impalpabile, immateriale, la luce necessita della materia per esprimersi e divenire concreta».

I nostri occhi si sono aperti progressivamente e, come l’Occidente ha colto definitivamente nella stagione “illuministica”, il cammino della scoperta, della conoscenza, della consapevolezza è incontro di luce e parola. L’annuncio cristiano, che ha per centro il Figlio, custodisce il carattere originariamente relazionale di tale cammino: come Virginia, ognuno di noi non solo è stato atteso e custodito, ma in presenza di altri ha imparato a guardare, legando via via a dei frammenti di materia, resi unici dalla luce, l’ascolto di nomi e parole. Luce e parola, luce e presenza ci aprono davanti un mondo di immagini. La stessa possibilità di comunicare si fonda su questo terreno comune, camminando sul quale entriamo in una comunità linguistica e nell’avventura della coscienza e del pensiero.

Per questa stessa ragione, prima che con la scrittura — e forse oggi dovremmo dire anche dopo la scrittura — gli umani hanno comunicato per immagini. Dalle incisioni rupestri alle istantanee salvate sui nostri smartphone è quanto vediamo a incidersi nella coscienza, quindi nell’immagine o nell’opera d’arte. Come insegna Giovanni Chiaramonte, infatti, cinema e fotografia sono «scrittura della luce» e per ciò stesso culmine del cammino umano, di cui fanno vibrare l’immaginario.

È la stessa ragione per cui possiamo avere molta speranza nella Bibbia, riconoscendola come il libro della luce. Essa toglie dal buio e porta in scena il tutto della nostra umanità, senza filtri e senza censure. La luce dello Spirito che la ispira riverbera sulla materia prima delle nostre storie, si esprime e diviene concreta in luoghi e vicende che catturano l’attenzione del bambino e si comprendono fino in fondo nella maturità.

Il canone biblico determina infatti lo spazio in cui abitiamo, la sua luminosità e vastità, il carattere ospitale della vita, il nome che diamo alle cose: come e più della voce dei nostri genitori, la Bibbia lega luce e salvezza.

In essa la Parola è densa di bene: avviene, chiama, distingue, conferma, orienta. “Orientati” furono presto i luoghi costruiti per ascoltarla, stabiliti sull’asse est-ovest così che il radunarsi notturno della comunità fosse ogni volta un nuovo venire alla luce. «Grazie alle viscere di misericordia del nostro Dio, per cui l’aurora dall’alto ci visiterà, per illuminare quelli che giacevano nelle tenebre e nell’ombra della morte, per guidare i nostri passi nella via della pace» (Luca 1, 78-79).

Ha un futuro la domus ecclesiae se tornerà a essere essenzialmente domus, perché solo un’autentica casa istituisce in noi quel rapporto tra luce e voci, tra visione e parola, che consente di umanizzarci e così — scopriamo in Cristo — di divinizzarci. «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che vi annunziamo: Dio è luce, e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che abbiamo comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, noi mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, com’egli è nella luce, abbiamo comunione l’uno con l’altro» (1 Giovanni 1, 5-7).

A fare la differenza è dunque l’occhio. Non a caso, nei vangeli, uno dei più frequenti segni del Messia è la guarigione dei ciechi. A fondare la corsa del pensiero, come l’avventura della vita, non sta una hybris predatoria, ma la strutturale apertura che comportano l’ascoltare e il vedere. Solo tardi si viene alla parola, alla propria parola: perché sia luminosa, perché ognuno sia luce come il Cristo trasfigurato è luce, abbiamo bisogno di una casa in cui coltivare la nostra originaria recettività. C’è umanità, c’è futuro, c’è tempo messianico dove si coltivano riflessione e amore.

“Riflessione” è parola intrisa di luce, rinviando essa al riflesso delle immagini quotidiane in uno spazio interiore, in cui hanno tempo di lasciarsi custodire e rielaborare. E “amore” è il nome della luce, il nome di Dio e perciò l’habitat del nostro esser concepiti e nascere.

Così, «Chi ama suo fratello rimane nella luce e non c’è nulla in lui che lo faccia inciampare. Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» ( 1 Giovanni 2, 10-11).

Ciò che nei primi giorni di vita ci investe di stupore, come indeducibile sorpresa, diviene infatti un talento da far crescere, secondo l’avvertimento: «La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!» (Matteo 6, 22-23).

di Sergio Massironi