Le inconfondibili tracce di luce nell’universo dell’arte

C’è, eccome se c’è!

William Turner «Il molo di Calais» (1803)
13 luglio 2021

Lo «Yehî ’ôr» («Genēthētō phōs» o anche «Fiat lux», Genesi 1, 3) rappresenta, nei più remoti arrangiamenti cosmologici, la prima scarica di luce. Tornando a ritroso, al passato più appartato, più arcano della vicenda cosmica, si arriva ad una regione minuscola, di densità e temperatura inimmaginabili, dove tutta la materia e l’energia dell’universo attendono di «splendere» e «suonare» per la prima volta. Lo «Yehî ’ôr» è un evento al contempo sonoro e luminoso, che gli esseri umani hanno intuito prima ancora di mettere insieme i concetti più elementari di scienza. Per questo hanno sempre trattato la luce ed il suono come archetipi del sacro.

In un certo senso, tutte le Scritture ebraico-cristiane hanno mantenuto una traccia ininterrotta di quella luce primordiale anche nelle successive epifanie del Sacro: «Dio è luce» (1 Giovanni, 1, 5) ed anche il suo fedele giusto diventa sorgente di luce, «luce del mondo» (Matteo, 5, 14-16); in Daniele addirittura si legge che il giusto risplenderà «dello splendore del firmamento» (12, 3). Nel cristianesimo romano dei primi secoli compaiono qua e là iscrizioni funebri in cui il cristiano ivi sepolto viene definito eliópais, cioè a dire «figlio del sole». Del resto è impossibile che l’arte non risenta le conseguenze della «Yehî ’ôr» e che un frammento di questo boato sfavillante non si espanda col tempo nella rappresentazione figurativa del divino, superficialmente ed anche carsicamente. Nel Faust di Goethe, Ariel immagina tali conseguenze come un grande fracasso luminoso, un tumulto di luce: «Welch Getöse bringt das Licht!», “Quale tumulto porta la luce!” ( ii , atto i , v. 4671).

Andrea Dall’Asta, grazie alla versatilità della sua formazione e dei suoi interessi, che spaziano dall’architettura alla filosofia, passando per la teologia, è perfettamente in grado di raccogliere i tanti frammenti di suono e di luce che si spargono in questo «tumulto». Lo ha già fatto ne La luce, splendore del vero (2018), un excursus sui sentieri della luce che copre la lunga distanza tra l’arte paleocristiana e il Barocco. Ritorna ora sugli stessi sentieri con La luce, colore del desiderio. Percorsi tra arte e architettura, cinema e teologia dall’Impressionismo ad oggi (Milano, Ancora, 2021, pagine 264, euro 36). Il saggio è esaustivo sin dal titolo e ci dispensa da troppe, cerimoniose introduzioni tematiche.

A partire dal Rinascimento il mondo è progressivamente scappato nella modernità. Ha conosciuto il Rinascimento, la filosofia di Cartesio, di Kant; ha smarrito un progetto unitario del sapere, così com’era stato elaborato per secoli dalla filosofia antica e dalla teologia, pensiamo solo alla Summa Theologiae di Tommaso D’Aquino; ha imparato da Grozio a fare a meno di Dio (etsi Deus non daretur). Nel frattempo, la rappresentazione dell’immagine ha subito una vera e propria rivoluzione: i grandi miti e le grandi epopee bibliche hanno perso il loro richiamo sugli artisti. L’arte si è trasferita da Roma a Parigi e poi da Parigi a New York. Sono aumentate le distanze dal punto d’osservazione e, al contempo, grazie alle innovazioni tecnologiche dello strumento ottico, anche l’invisibile è diventato «visitabile». Il mondo si è avviato, per gradi, alla secolarizzazione, al Disincanto, come affermerà il filosofo Marcel Gauchet, in continuità con le riflessioni di Weber; l’arte ha studiato il modo di limitarsi al valore estetico, perdendo ogni legame con i grandi ideali, religiosi e morali. Anche la natura ha smesso di parlare all’arte del supremo autore. Dall’Asta si è domandato che fine abbia fatto la luce, mentre il mondo scivolava lontano da Dio. Si è forse persa, la luce? In un certo qual modo, lo splendore dell’inizio, deflagrato dallo «Yehî ’ôr», essendo nato col mondo non può finire prima del mondo; anzi, potremmo dire, per chi crede, che quasi certamente esso non può sparire neanche con la fine del mondo. Esso scintillerà con maggiore intensità nella Gerusalemme Celeste. Dunque, una traccia incessante deve continuare a splendere, anche in un mondo dimentico di Dio o che si ritiene tale. Dall’Asta ce la fa intravedere quasi al microscopio, in quel lento processo attraverso cui l’arte ha cominciato a disfarsi della forma, del disegno, della linea. La luce è ancora lì, ci dice, non è scomparsa, anche se non è più esplicitamente cristiana o teologica o religiosa; essa è forse più nascosta, ma anche più libera. Libera di tramutarsi nel colore e di cominciare a «bagnare» le cose. La luce è nelle verdi praterie di Courbet, nei mari tempestosi di Turner, nelle splendide stoffe di Delacroix, nel verde brillante di un vaso di Cézanne, nell’alba sul porto di Le Havre di Monet. La luce si è come decomposta, nel mélange optique di Seurat, in quegli strani manichini senza vita che sono i suoi soggetti, ma è ancora lì. Persino nei quadrati su fondo bianco di Malevich, nel loro silenzio siderale, se si fa attenzione, c’è una traccia di quella luce. Per non parlare poi dei suoi quadrati bianchi su fondo bianco: non v’è qui una traccia di luce, ma un’intera tela di luce, una teofania, «un’apparizione del numinoso», come direbbe Kandinsky. Anzi, Dall’Asta riesce a farci scorgere, sotto la lente del suo microscopio, la potente energia mistica che affiora da queste nuove rappresentazioni, sempre più astratte, sempre più imprecise: dagli zip di Newman, dai barattoli di Ettore Frani, dalle chiese di Tadao Ando. Persino nelle macchie blu di Klein, lo straordinario, ascetico Klein, Dall’Asta vede la luce e ce la fa vedere. C’è, eccome se c’è. Se le si osserva attentamente, quelle sue strane macchie blu, magari ascoltando un lieve brano di Debussy, si ha come la sensazione di perdersi nell’universo, di volteggiare leggeri nello spazio, di smaterializzarsi nel blu celeste, raggiungendo una sorta di «minimum minimorum» dell’essere. Toujours plus loin!

di Roberto Rosano