«Un pinguino a Trieste» di Chiara Carminati

Alla ricerca
della propria identità

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12 luglio 2021

È il 1942 e il Nova Scotia, con a bordo diverse truppe britanniche, viene affondato da un sommergibile tedesco. Sul piroscafo, diretto in un campo di internamento in Sud Africa, ci sono anche centinaia di prigionieri italiani. Qualcuno, tra loro, riesce a salvarsi, sopravvivendo al naufragio. Prende dunque spunto da un fatto realmente accaduto Un pinguino a Trieste (Firenze, Bompiani, 2021, pagine 224, euro 13) l’avvincente romanzo di formazione di Chiara Carminati, il cui protagonista assume le sembianze di un quindicenne degli anni Cinquanta, costretto a scappare a Trieste, da Lussino, perché italiano e perciò, al pari di tutti gli italiani, sgradito ai partigiani jugoslavi.

Nicolò D’Este — orfano di madre, sradicato dalla terra dei suoi nonni — una volta arrivato nella città della Bora, di Svevo, di Joy-ce e delle ragazze Wieselberger, recupera l’articolo di un giornale che ha la copertina con Gina Lollobrigida e finalmente può illuminarsi: è infatti la storia del Nova Scotia, su cui pure suo padre Alfredo si trovava, e parla dei dispersi e delle vittime, dei superstiti. Da qui l’idea, la suggestione che emerge dalle foto a corredo del servizio, la speranza: «Se fosse ancora vivo?».

Ecco pertanto che inizia il viaggio verso l’ignoto («era l’inizio di marzo del 1953 e poco tempo dopo mi sono ritrovato con un imbarco per il Lloyd Triestino sulla motonave Europa, undicimila tonnellate, velocità venti nodi»). Nicolò parte con l’audacia sfrontata della giovinezza e s’imbarca, come piccolo di camera, alla ricerca di un padre scomparso in guerra e mai conosciuto, che poi altro non è che la ricerca di sé, la ricerca della propria identità (quella che anche la mitteleuropea e multiculturale Trieste, sospesa tra italiani e jugoslavi, vuole trovare). La destinazione del ragazzo è il Sud Africa e il viaggio, come tutti i viaggi in mare che si rispettino, è metafora di maturazione, di catarsi, di vuoti che devono essere colmati.

Nicolò troverà suo padre? Alfredo sarà davvero vivo? Anche le domande dei giovani lettori, insieme a quelle del nostro “eroe omerico” si moltiplicano, grazie pure alla suspense della narrazione, fino a comprendere che, comunque vada, nulla è da considerarsi inutile, vano. «E allora mi sono detto che forse non avrei trovato mio padre, alla fine del viaggio, ma magari non era solo per quello che ero partito. Forse ero partito per dimostrare a me stesso il mio coraggio. E mi sono ripromesso di scendere a terra, durante il ritorno, in tutti i posti dove potevo farlo. Sarei tornato a casa con una nuova mappa: quella tracciata dai miei piedi e dai miei occhi».

Recita in tal modo la celebre poesia di Kavafis, la quale torna alla mente, seguendo le tappe compiute da Nicolò: «Quando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga, / fertile in avventure e in esperienze». E, in effetti, le avventure e le esperienze del protagonista di Un pinguino a Trieste sono molteplici e servono per diventare grandi: la conoscenza dell’altro, l’amicizia e l’amore (e la storia con l’occhialuta Susanna ricorda quanto siano folgoranti gli incipit di certi scrittori, tra tutti Philip Roth: «La prima volta che la vidi, Brenda mi pregò di tenerle gli occhiali»), la generosità e l’accoglienza, il valore della nostalgia, i mondi nuovi come Durban e l’umanità brulicante come quella scoperta al District Six di Cape Town («il District Six era facile da trovare: stava tra il centro e il porto. Ma era un quartiere completamente diverso da Cape Town. Era fatto di case basse, strade di sassi e gente di tutti i colori. Era un quartiere povero, eppure pulsava di gioia, di speranze, di vita») poi snaturato nel 1966 a causa delle politiche razziste dell’Apartheid. Per non parlare, sempre in termini d’avventura che in un modo o nell’altro fa crescere e responsabilizza, dell’incontro tra Nicolò e Marco, il pinguino a cui si riferisce il titolo del libro, importante per la vicenda narrata, poiché si scoprirà essere il legame simbolico che unisce il ragazzo a suo padre, ma principalmente perché trattasi di pinguino effettivamente esistito, passeggero “clandestino” sulla motonave Europa e su di essa comparso misteriosamente (nel libro viene rapito dai colleghi di Nicolò). Pinguino, ancora, che ha vissuto per oltre trent’anni nella città di Trieste, trovandovi così tanta ospitalità da divenirne la sua indimenticabile mascotte.

Così in questo romanzo, il cui racconto arriva all’incirca fino al 1955 e in cui si svelano fatti di cronaca accompagnati da svariati paratesti (giusta l’idea di inserire tra le pagine del racconto i ritagli dei quotidiani dell’epoca), c’è tutto: la Storia, «la cosiddetta “questione di Trieste”», un’irresistibile galleria di personaggi che ispira ad aver fiducia nel mondo degli adulti, la crescita personale di chi vi sta dentro, i padri («quelli veri, quelli finti e quelli presi in prestito»), la memoria, la condivisione di paure e altre emozioni, i rimedi contro la solitudine, i libri nei libri come Tifone di Joseph Conrad e un finale che di cose impresse lascia soprattutto il sorriso.

di Enrica Riera