«Anime e foglie» della psicoterapeuta Elena Cornacchione

Ritorno alla natura

La poetessa statunitense Emily Dickinson  (1830-1886)
10 luglio 2021

La poesia e la natura si sono spesso incontrate, fin dalla antichità più remota, ma forse è solo con Emily Dickinson che questo incontro diviene, o torna a divenire, una vera e propria Rivelazione. La poetessa di Amherst trasforma i boccioli, i rami, le erbe del suo giardino in presenze che alludono al prima del Giardino originario: «Al mio vigile orecchio le Foglie — parlavano — / i Cespugli — erano Campane — / non riuscivo a isolarmi / dalle sentinelle della Natura / se in una Grotta pensavo di nascondermi / le Pareti — cominciavano a raccontare — / il Creato sembrava un potente Boato — / che mi rendeva visibile».

Quello che ancora oggi ancora stupisce è il linguaggio visionario, avulso da quello denotativo del realismo che pure conosceva in quegli anni gli apporti di Dickens e di Balzac. E non solo: in quel medesimo periodo Lewis Carrol scriveva Alice nel Paese delle Meraviglie, che in una prosa apparentemente svagata ma puntigliosa nella sua ostinazione infantile, quasi rassegnata all’accadere anche di ciò che non si ritiene possibile, affronta il tema delle metamorfosi del visibile agli occhi di chi sappia guardarle.

E quelle pareti che iniziano a parlare di Emily non sono poi così lontane dalle visioni che dominano il percorso di Alice.

Il ritorno alla natura è accompagnato dall’attenzione anche della psicologia: proprio in questi giorni è uscito Anima e foglie. La forza della guarigione psicologica della Natura, della psicoterapeuta Elena Cornacchione (Lecce, Youcanprint, 2021, pagine 159, euro 17) in cui l’autrice, oltre a illustrare le sue tecniche terapeutiche, che comprendono passeggiate con i pazienti a contatto con gli alberi, le acque e le creature dei boschi, si sofferma in un apposito capitolo su quella letteratura che ha celebrato la comunione dell’uomo con la grande madre.

Anima e foglie, dopo aver parlato della Dickinson, affronta i protagonisti della cosiddetta rinascenza americana: Thoreau, ad esempio, che visse per due anni in un bosco, e Whitman. Il creato viene visto dal poeta di Foglie d’erba non come separato dalla ragione, ma un tutt’uno con essa.

Non è un caso che anche le poesie meno amate da Whitman stesso, come l’aggiunta scritta alla notizia dell’uccisione del presidente Lincoln, abbiano al loro centro il computo del tempo attraverso i segni della natura.

E diventeranno paradossalmente le più conosciute dal grande pubblico grazie al film di Peter Weir, L’attimo fuggente:

«Quando i lillà fiorivano, l’ultima volta, nel prato davanti alla casa / e il grande astro del cielo d’occidente calava presso la sera, / io ero in lutto, e sempre lo sarò, ogni volta che torni primavera. / Primavera che sempre ritorni, sempre mi porterai questa triade, / i lillà perennemente in fiore, l’astro che tramonta ad occidente, / ed il pensiero di colui che amo».

Henry David Thoreau vede nella natura l’unico modo di tornare al senso autentico della vita.

Una frase da Walden, «in una bella mattina di primavera tutti i peccati umani sono perdonati», ci fa pensare a quanto l’archetipo della stagione della rinascita sia rimasto nell’immaginario dei poeti di tutti i tempi. Ne abbiamo testimonianza nell’esordio primaverile dei provenzali, e, del resto, gran parte della letteratura continua a identificare la comparsa dell’amore e della speranza con la primavera. E con la Creazione, come nella Commedia dantesca.

Anche Baudelaire, affascinato — e terrorizzato — dal labirinto della nuova città post-industriale, riconosce nel simbolo una lontana eco della antica comunione con la natura:

«La Natura è un tempio in cui pilastri vivi / a volte emettono confuse parole; / l’uomo, osservato da occhi familiari, / tra foreste di simboli s’avanza».

D’altronde Il burattino Pinocchio è di legno, un legno non particolarmente nobile, il che richiama alla pietra scartata che diviene testata d’angolo del Vangelo, tanto per sottolineare l’estrema penetrazione non solo nella fede ma anche nelle radici profonde dell’essere della Scrittura.

La comunione con la natura può essere letta anche nelle sue valenze di orrore sacro, come percezione dell’abisso originario celato nella natura. E probabilmente il canto delle sirene omerico è lontano ricordo della minaccia dell’indifferenziato, il ritorno al grembo della grande madre.

Non è un caso che la morte per annegamento divenga poi un motivo della modernità, basti pensare alla Waste land di Eliot. E come non interpretare la selvaggia natura di Cime tempestose di Emily Brontë come altra forma della furia della passione e del destino di amore-morte di Heathcliff e Catherine?

Ma ci sono due libri del Novecento che più di altri hanno narrato il ritorno alla natura: Le scogliere di marmo di Ernst Jünger e La pietra lunare di Tommaso Landolfi, ambedue usciti nel 1939. In Le scogliere di marmo, che segna il definitivo distacco di Jünger dal nazismo, si assiste al conflitto tra gli uomini della Marina, dediti alla coltivazione e ad un rapporto costruttivo con la natura e quelli del buio delle selve, guidati dal Gran Forestaro che rappresenta non come qualcuno ha detto la natura selvaggia, ma l’uso del ritorno alla foresta e alla forza come vessillo ideologico di sopraffazione verso l’altro.

Nella Marina, botanici, monaci, ex soldati collaborano per trovare un modo di vita conciliato con il creato, anche attraverso lo studio della natura:

«Non ci era difficile allora il dar nomi alle cose, e nell’Eremo della Ruta noi ci muovevamo come in uno spazio ove fosse diffusa una potenza magnetica».

In La pietra lunare Landolfi ci presenta l’incontro tra un ragazzo di città e una fanciulla che viene dalle montagne. Il protagonista pensa, come faremmo tutti noi, che per montagne si intenda una casa sulle colline, mentre invece la ragazza viene dalle profondità dei boschi. Gurù è infatti una Verania, un essere metà donna e metà animale, che ha il compito di condurre il protagonista nei boschi più fitti della zona, e di notte, per metterlo in contatto con lo spirito dei luoghi.

E non è un caso che la scena culminante sia l’incontro con le tre grandi madri. I richiami sono molteplici: la statuaria antica, gli studi sul matriarcato, Thomas De Quincey, i miti greci, le Parche soprattutto.

Ma qui c’è qualcosa di più. Il romanzo è un tributo notturno alla natura, un elogio dell’ombra, direbbe Borges. Non la natura solare, diurna, tranquillizzante, ma quella notturna, che ci costringe a usare i sensi più profondi, i ricordi ancestrali, i racconti di origine.

Non è un caso che le tre madri guardino fissamente la luna, Diana-Ecate-Persefone, il simbolo vivente dell’interminabile danza delle ore, della polarità luce-ombra, della impossibilità di separare ciò che da sempre è unito. Ed è anche per questo che il ritorno all’Icona della Madre di Dio è uno dei capitoli più affascinanti, che lambisce lo stesso Botticelli terminale, della nostra storia dell’arte.

di Marco Testi