Solo uno sguardo differente fonda un’etica della responsabilità

«Vedere» il mare

 «Vedere» il mare  QUO-153
09 luglio 2021

«Oggi si può abitare in una città di mare senza riuscire a vederlo, e il mare può riuscire a non vederlo anche chi lo attraversa, lo vende e lo compra». L’osservazione di Franco Cassano ne Il pensiero meridiano mette il dito nella piaga culturale del nostro rapporto con il mare. Nell’era del consumismo che degrada tutto a oggetto, anche l’oceano può essere ridotto a strumento per affari turistici o commerciali. Per “vedere” il mare occorre uno sguardo contemplativo che sappia farsi affascinare dall’orizzonte infinito e che si lasci invadere dall’inquietudine che fa desiderare di partire o sognare un viaggio.

Solo uno sguardo differente fonda un’etica della responsabilità nei confronti del mare. La pandemia ha rafforzato la convinzione che la salute del mare è intrecciata alla salute dell’umanità. E la salute spirituale dell’uomo è conditio sine qua non della salute delle realtà create.

La precarietà in cui versano gli oceani è sotto i nostri occhi. Nella “sofferenza” del mare c’è la sofferenza dell’intera creazione. L’uomo che si pensa come “dominatore assoluto” ne è la causa: cambia la temperatura e il colore alle acque che si impoveriscono della loro biodiversità. Quando prevale l’atteggiamento predatorio gli spettri della morte avanzano inesorabilmente. Il riscaldamento del pianeta impatta sul clima e provoca migrazioni non solo umane. Anche numerose specie animali emigrano da un mare all’altro, con la conseguente trasformazione irreversibile dell’ambiente. Nel Mediterraneo si va ormai diffondendo la presenza di pesci che normalmente abitavano mari più caldi o tipici dei climi tropicali. L’aumento dell’anidride carbonica, frutto delle crescenti immissioni di CO2 nell’atmosfera, è all’origine dell’aumento di acidità delle acque marine, con la conseguente compromissione della catena alimentare umana.

In tale situazione, l’uomo finisce per vestire i panni della preda e del predatore. È preda perché l’innalzamento del livello del mare può creare situazioni di estrema gravità per le popolazioni che abitano sulla costa; nel mondo sono a rischio alcune città costiere che pagano salato il conto dello scioglimento dei ghiacciai ai poli. Ma l’uomo è anche predatore perché tra le cause dell’inquinamento del mare si annoverano la deforestazione, le monoculture agricole, l’eccesso di rifiuti industriali sversati nelle acque e la pesca distruttiva. Infine, attraverso i mari si muovono oltre il 90 per cento delle merci commerciali nel mondo. Gli oceani sono solcati da gigantesche navi piene di container e di materie prime per il commercio e il lavoro di molte industrie. Gli equipaggi delle navi sono spesso costretti a turni disumani e a rimanere lontani dai familiari per mesi. Come scrive il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, nel Messaggio per la Domenica del mare 2021, «problemi di isolamento, solitudine, separazione e ansia per la famiglia e i propri cari lontani migliaia di chilometri, insieme all’incertezza del proprio futuro, hanno aumentato lo stress fisico e psicologico a bordo delle navi, a volte con conseguenze tragiche». Serve una cultura del lavoro e della giustizia sociale, che ponga fine a lavori sottopagati, a turni massacranti e a non avere cure adeguate nel caso i lavoratori si sentano male.

I marittimi morti in mare non fanno quasi più notizia. Ha colpito di recente la vicenda del comandante spezzino Angelo Capurro morto in mare a causa del covid, il cui cadavere è stato conservato nel freezer di bordo con il cibo dell’equipaggio a causa del diniego di sbarco da parte delle autorità indonesiane. Ci sono voluti due mesi per poter offrire ai familiari la possibilità di celebrare le esequie del proprio defunto. Non è l’unico caso, purtroppo. In altre circostanze i morti sono stati gettati in mare, abbandonati e dispersi. Comunque sia, il lavoro sulle navi mercantili necessita di ritmi più umani e di adeguate protezioni assicurative e sanitarie. L’insicurezza del lavoro in mare fa riflettere sul grado di umanità e di solidarietà della nostra civiltà. In tempo di pandemia, si sono segnalati numerosi casi di pirateria nei confronti di lavoratori che aspirano solamente a svolgere in pace la loro attività senza essere sottoposti a violenze e pericoli per la loro incolumità.

A ciò si aggiunga il dramma delle navi abbandonate: con la crisi del covid è raddoppiato il loro numero a livello mondiale. Nel 2020 se ne sono contate quarantacinque abbandonate da armatori senza scrupoli: i relativi equipaggi sono stati sottoposti a condizioni disumane, senza accesso al cibo, acqua potabile, cure mediche e possibilità di rimpatrio. Guardare alle ingiustizie in corso è un modo per “vedere” il mare.

L’ecologia integrale dei mari richiede, fra gli altri, tre atteggiamenti che somigliano a tre vie di uscita affinché il mare torni in salute. La prima via raccoglie l’eredità spirituale di chi vede nell’oceano un dono, un mistero aperto sul Creatore. Lo sguardo contemplativo è lode, si fa preghiera, ma sa scorgere anche i lati fragili e oscuri del mare. Lo testimonia Adam Zagajewski nella poesia Notte, mare:

«A notte il mare è scuro, opaco / e parla con un rauco sussurrio. / Così veniamo a conoscenza / del suo vergognoso segreto: luccica / di luce riflessa. / A notte è misero come noi tutti, / nero, rimasto orfano; / paziente attende il ritorno del sole».

Il secondo fondamentale atteggiamento è la custodia dell’equilibrio degli ecosistemi. Gli oceani coprono tre quarti della superficie terrestre: non sono marginali per definire il rapporto tra l’uomo e la creazione. Preservare la salute dei mari significa custodire la salute della Terra e, in definitiva, dell’uomo. Ogni variazione di temperatura climatica dell’acqua impatta sull’intero pianeta e rappresenta una sorta di stress test per tutto il sistema oceano, che a ben pensarci non è la somma dei mari, ma un vero e proprio biosistema complesso e interdipendente.

La terza via da percorrere è la creazione, come suggerisce Laudato si’, di un «sistema di governance degli oceani» (n. 174). Al punto in cui ci troviamo, il problema dei rifiuti marini e della protezione delle aree marine è davvero una sfida epocale. Non c’è tempo da perdere.

È questo il momento per agire per ritrovare lo sguardo contemplativo sulla creazione come dono d’amore di Dio e per convertire i nostri stili di vita. Siamo creati per “vedere” il mare. Qualche anno fa l’economista statunitense Jeffrey Sachs diagnosticava che «il nostro benessere e la nostra stessa sopravvivenza dipendono in tanti modi dai mari. Se non ci preoccupiamo di questi molteplici attacchi e soprattutto non li affrontiamo, in un futuro non lontano ci troveremo alle prese con crisi sempre più gravi». Sarà bastata la pandemia a farci cambiare o dobbiamo aspettarci altro?

di Bruno Bignami